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Secondo la tradizione orale, il popolo Baga, Baeraka,ovvero gente di mare, era originario degli altopiani interni della Guinea. A causa di vicissitudini e guerre con popolazioni vicine, a partire dal XV secolo si spostò progressivamente verso sud, lungo il litorale della Guinea. Originariamente animisti, poi progressivamente islamizzati all’epoca del commercio degli schiavi gestito nel XVIII secolo dal Regno di Fouta Djallon, i Baga anch’essi vittime della tratta, non cessarono mai di praticare i culti ed i rituali tradizionali. Questo popolo è attualmente costituito da sotto-gruppi etnici che condividono le medesime caratteristiche culturali. I Baga mantengono inoltre significativi rapporti con i popoli dell’entroterra, i Landuman, i Nalu, i Susu ed i Temme della Sierra Leone con cui hanno affinità e somiglianze linguistiche.
Nimba-d’mba-yamba, cm.135, XIX sec. Photo: Luis Lourenço. Courtesy of Museo Barbier-Muller, Ginevra, CH
La scultura nimba-d’mba-yamban, sovente denominata per contrazione nimba, è una monumentale e rilevate creazione artistica nell’ambito della cultura di questo popolo. Nascosto sotto un ampio costume di rafia, il danzatore portava l’imponente maschera sulle spalle con l’ausilio di quattro supporti. Questa maschera appartiene al limitato corpus conosciuto, non più di una quindicina. Mediante liane intrecciate era fissato il costume di rafia e fibre vegetali. Le vicissitudini dell’islamizzazione ed il contesto politico successivo, hanno fortemente depauperato le forme tradizionali della cultura tradizionale di questo popolo con la proibizione dei rituali e la distruzione degli oggetti ad essi collegati. Il significato simbolico della maschera nimba è da ricercarsi nell’immagine idealizzata della donna, tutrice della fertilità della terra, dell’abbondanza dei raccolti e della fecondità muliebre. Secondo la tradizione dei Baga, questa maschera, espressione di rigore e dignità, danzava durante i festeggiamenti dei cicli dell’agricoltura, ed interveniva nei riti funerari. In virtù delle sue forme e soprattutto dei suoi impressionanti volumi, questa maschera, vera e propria scultura, è stata fonte d’ispirazione per diversi grandi artisti del primo ‘900, Pablo Picasso in primis. Altre maschere nimba sono conservate al Musée du quai Branly – Jacques Chirac, all’Art Institute di Chicago, al Musée di Tolosa, al Museum Rietberg di Zurigo ed in alcune collezioni private.
Nalu, 75 cm. Photo Studio Ferrazzini Bouchet. Courtesy of Museo Barbier-Muller, Ginevra, CH
La statua di altare a-tshol-ñach-ëlëk, della società simô, era la La statua di altare a-tshol-ñach-ëlëk, della società simô, era la la rappresentazione stilizzata di un uccello dal lungo becco poggiato su una piccola base, a volte compatta, a volte traforata. Una figura di grande ingegno creativo e di stupefacente bellezza che nella cultura dei Baga Buluñits, era legata ai riti della raccolta del riso, a quelli funerari e all’attività di divinazione. Soggetta a svariate libagioni rituali, una figura similare è riscontrabile anche nell a-tshol-ñach-ëlëk conservata alla Menil Collection di Houston. La necessità di una visione più profonda delle forze dell’invisibile e quella di una più incisiva efficacia divinatoria, hanno spinto l’artista Baga a concepire questa mirabile soluzione di zoologia fantastica, degna della penna di Jorge Luis Borges.
Landuman, Maschera Thönköngba o Numbe, Guinea Legno con patina nera esudante, metallo (occhi) h cm 95 XIX Sec. Coll. privata
Misteriosa maschera denomoinata Thönköngba o Numbe del popolo Landuman afferente alla cultura Baga. Di questa maschera Thönköngba o Numbe si sa ben poco. Alcuni sostengono che fosse utilizzata a protezione del villaggio e collocata sulla dimora esterna dello chief; altri come Frederick Lamp, che fosse in uso in alcune danze ed anche come elemento di altare rituale. Non esistono foto in situ conosciute a dimostrazione di come l’oggetto fosse considerato degno di particolare protezione. Questa maschera maschera astratta, sintesi mirabile del bufalo, della tartaruga e del serpente sta forse a significare, secondo Elsy Leuzinger, il dualismo tra terra ed acqua.
“Rien n’est connu par rapport à une sortie éventuelle du masque. Bernard Holas ne le mentionnne même pas dans son article de 1947 ( 61-67) sur les danses de la Basse-Côte de Guinée. Ceci peut signifier que la danse n’était déjà plus exécutée ou seulement en secret. Le fait qu’on n’a jamais vu sortir le masque à des occasions profanes et l’excellente qualité sculpturale qui se retrouve chez à peu près tous les exemplaires, nous fait supposer que le masque ait gardé toujours sa function rituelle.” (G. van Geertruyen, 1976)
Interessante l’immagine delle due maschere precedenti, la Landum è la stessa , in una fotografia dell’ Olten Museum.
Courtesy of Olten Museum. Olten, cantone di Soletta, CH, Photo F. Schaedler, 1989.
Nella maschera Landuman, le corna del bufalo sono unite anche se uno spazio vuoto interno le distanzia e sono congiunte ad un corpo centrale solcato da numerose incisioni sia orizzontali che verticali che a sua volta è l’inizio di un lungo “collo” a sezione pentagonale, solcato da finestrelle rettangolari che si succedono regolarmente. Il “muso” si conclude con una parte mobile, una sorta di bocca destinata a chissà quale significato.
L’aspetto “vissuto” conferisce alla maschera un’aura di mistero che è parte integrante della sua bellezza, sia di quella esteriore che di quella interiore.
“ Sereno colui che conoscendo il cammino degli dèi vive beato nellapurezza” Euripide
E’ dai remoti tempi della Teogonia di Esiodo, dal visionario De rerum natura, la cosmologia di Lucrezio, che nel corso dei secoli, l’interrogativo circa l’origine dell’uomo è stato sviscerato, fatto oggetto di infinite diatribe, congetture e fantasticherie, in ogni lingua ed in ogni dove. Le semplici domande: Ma dove ha inizio ? In quale luogo? implica affascinanti suggestioni e ci ripropone ipotesi, enigmi e modelli interpretativi storici, filosofici e teologici. I nostri progenitori, già tre milioni di anni fa, scheggiavano pietre per ricavarne utensili necessari alla sopravvivenza.
Questo avveniva, sia pure con l’approssimazione legata all’evolversi delle conoscenze e di nuove scoperte, ben prima dell’ homo habilis e del sapiens, ed è innegabile, pertanto, che una qualche primordiale ed istintuale forma di pensiero fosse presente fin d’allora. E’ verosimile immaginare che i primi ominidi, nostri remoti antenati, avendo attraversato svariate ere geologiche, disponessero di quei rudimenti esistenziali necessari per proteggersi dalle intemperie, riprodursi, allevare la prole, cibarsi: in una parola perpetuare la specie e trasmettere le conoscenze via via acquisite. Non era certamente il pensiero che, con lo sviluppo osseo del cranio e della massa cerebrale verrà a determinarsi; erano immagini, stimoli sensoriali, rudimentali associazioni pre-logiche. Ma chi può negare che anche queste prime associazioni logico/percettive dei nostri progenitori non siano state anch’esse foriere del primo nucleo dell’inconscio universale? La storia della nostra origine non si riduce soltanto ai reperti ossei o ai primi manufatti e non può esimersi dall’approfondimento dell’evoluzione della psiche, per quanto rudimentale ed ai primordi della sua evoluzione. Erano, infatti, semplici processi mentali, assai distanti dalla capacità di percezione del proprio sé, cioè da una iniziale autocoscienza che si è sviluppata all’incirca all’epoca del sapiens tra i 200.000 e 150.000 anni fa. Ipotizzare però che tali ominidi non disponessero di altra facoltà se non quella di una mera capacità di sopravvivenza, è un’ipotesi meccanica estremamente semplicistica. Penso, al contrario, che fin da allora, potenzialità deduttive e sensibilità immaginifiche guidassero il loro comportamento e le loro attività quotidiane.. Come avrebbero potuto i nostri progenitori, senza questo grado di evoluzione, dare vita a manufatti, incisioni e pitture, non a torto vere e proprie opere dell’ingegno artistico? Per quanto è dato di sapere oggi, le prime raffigurazioni con l’immagine di animali, pare siano databili all’incirca 40.000 anni e sono state trovate in alcune caverne dell’isola Sulawesi nell’arcipelago indonesiano, ben prima, a quanto sembra, di quell’arte parietale paleolitica delle grotte di Lascaux.
Bisonte, pittura parietale 18.000-16.000 a.C. Grotta di Lascaux, Dordogna (Francia)
Quelle immagini, a mio parere, altro non sono che una prima rappresentazione pittorica originata da un inconscio condiviso e, di fatto, l’esito compiuto di una millenaria evoluzione. Compito della paleoantropologia è quello di fornirci continui aggiornamenti ed interpretazioni sulla genesi, lo sviluppo e la diffusione geografica della nostra specie. Scrive Giorgio Manzi, « Voglio ricordare che ormai da tempo è cambiato il paradigma interpretativo della nostra evoluzione. Si è passati da una rassicurante visione lineare del fenomeno – “le marcette dell’evoluzione umana”, come le chiamava Stephen Jay Gould – a una visione molto più ramificata, attraverso la quale possiamo avvicinarci a comprendere la complessità degli eventi che nel corso degli ultimi milioni di anni hanno portato fino a noi »(1)
I testi che riguardano la storia evolutiva invecchiano rapidamente; nuove acquisizioni scientifiche ci conducono verso nuove conoscenze. Non si tratta di sottovalutare o sminuire lo studio neuro/biologico o genetico/evoluzionistico, bensì ribadire che la storia dell’umanità non è stata soltanto il concatenarsi più o meno casuale di eventi biochimici, ma anche lo strutturarsi di forme di pensiero conscio ed inconscio presenti fin dagli albori. Lo scopo di questo lavoro è appunto quello di una pur breve ed iniziale indagine sull’origine ed il significato di quelle prime forme di pensiero. Come detto, tracce latenti presenti fin dall’origine dell’umanità, a seguito delle ripetute esperienze di innumerevoli generazioni nel corso del tempo, si sono accumulate e strutturate in immagini, storie, leggende e miti. Sono quelle tracce che Gustav Jung definisce archetipiche, le forme universali di pensiero dotato di contenuto affettivo che costituiscono la struttura fondamentale dell’inconscio collettivo, base della psiche umana. Tracce che hanno profondamente segnato il destino dell’umanità, che lo hanno condizionato ed orientato e che si sono incarnate, per quel ci riguarda da vicino, nella sapienza greca e mediterranea, culla della nostra civiltà moderna. Agli albori di essa, ben prima della tradizione scritta, compare la figura dell’indovino/divinatore, mediatore tra il mondo visibile e quello che non è conoscibile. Costui, con l’impiego di pratiche di varia natura, dall’estasi alla profezia, dall’oracolo all’incantamento, si propone per il bene individuale e della comunità. Solamente mediante il responso oracolare, sovente con le parole del mito, autentico scrigno di sapienza destinata a custodire il sapere universale, è possibile accostare i grandi dilemmi dell’esistenza. Nel libro VII della Repubblica, Platone, con l’ausilio di allegorie e metafore, ci parla di uno dei miti più famosi della cultura occidentale: quello della caverna.
Una rappresentazione del mito tratta dal web
Prigionieri in una profonda caverna, gli uomini incatenati non possono vedere e sentire che le ombre e l’eco di voci lontane. Senza un processo di formazione – la paidéia destinata a riscattarli – quegli uomini sono prigionieri di un oscuro e fallace destino, fatto di simulacri che impediscono la conoscenza della realtà e di loro stessi. La fuga di un prigioniero che si è liberato delle catene e che è fuoriuscito dalla caverna non è che la prima delle condizioni del riscatto: il mito richiede che per l’umanità, l’emanciparsi dal mondo di ombre, avvenga soltanto a condizione che quell’uomo stesso ridiscenda nella caverna e lotti, a rischio della propria vita, per sciogliere gli altri dalle catene. La libertà di uno, infatti, non ci libera dal buio e dall’oblio: il perenne confronto con l’ignoto, con i conflitti celati nella nostra anima, con la volontà tesa ad un perenne confronto con le sfide che la vita ci riserva, sono la condizione per un’umanità che aspiri alla conoscenza e non soltanto alle ombre proiettate sul tetro muro di una grotta sotterranea. Il mito di Platone ci ammonisce che la compiuta salvezza è un’illusione, ma che l’impegno di ognuno è la condizione per rintracciare le vie di un riscatto degno dell’uomo libero. Il significato del mito è compiuto: l’oracolo è svelato, l’enigma ha trovato la sua risposta. Scrive Marc Augé, riferendosi peraltro a tutt’altro contesto, ma in sintonia col mito platonico: « Ogni uomo infatti è già tutto l’uomo; ogni vita è anche tutta la materia; ogni individuo è anche tutti gli altri. L’antenato sopravvive solo nella filiazione. Egli si preoccupa del culto che gli devono rendere i suoi successori, tormentandoli nel corpo e richiamandoli all’ordine, solo perché sa, come noi abbiamo sempre saputo, che c’è solo un’alternativa: vivere al plurale o morire solo»( 2)
Fin dagli albori della sua esistenza, l’uomo si è interrogato sul proprio destino, sugli eventi ancora non accaduti, cercando di rintracciarne e prevederne l’esito. L’ignoto pertanto è un archetipo universale, sedimentato nel profondo del nostro inconscio, ed è un’immane forza attrattiva ed insieme ricettacolo di angoscia. « Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza » ci esorta l’Ulisse dantesco e questo verso, meglio di ogni altra considerazione, illumina quella forza e quel timore insiti nello sguardo sull’ignoto. E’ con questo spirito, che forse la nostra remota progenitrice Lucy, volgendo lo sguardo da un’altura d’Africa, immaginò il percorso secolare dei suoi simili verso altri continenti, verso altre terre più favorevoli alla vita di ogni giorno. Le orme lasciate oltre tre milioni di anni fa dagli ominidi compagni di Lucy, non hanno solcato di fatto soltanto le aride ceneri sparse da un vulcano in eruzione; sono altresì immagini, storia, sentimenti, affetti, timori e speranze incisi nello sviluppo psichico, sedimentati nel vitalistico magazzino della memoria collettiva. L’archetipo dell’ignoto è anche un Giano bifronte e se da un lato esprime una sua forza indomabile e propulsiva, dall’altro è indissolubilmente intrecciato al timore profondo, all’angoscia, alla consapevolezza di non conoscere quel che esso ci riserverà. L’universalità di tale evento psichico è radicata profondamente nella psiche umana e le civiltà di ogni tempo e di ogni luogo hanno sperimentato l’inafferrabile entità del futuro, interrogandolo con modalità, strumenti e procedure assai dissimili, ma col medesimo fine, quello di conoscere in anticipo il corso degli eventi personali o della comunità . La funzione divinatoria, sia essa opera di un indovino, sacerdote, sciamano o diviner è sempre stata investita da un’aura di misteriosa religiosità che ne amplificava gli esiti e rafforzava il legame con il soprannaturale. Si situa infatti in un mistico territorio riservato unicamente agli adepti del culto che, in virtù di tali poteri, rivestivano un ruolo ed uno status rilevanti e privilegiati all’interno della comunità, in specie in quei territori dove la lotta per la sopravvivenza era fatalmente più feroce. La predizione degli eventi inoltre, era una sorta di patto che utopicamente riscattava l’uomo dall’impotenza difronte al futuro, consegnandolo all’utopia dell’onniscenza. Un patto che quando si rilevava fallace era causa , sovente , di grande nocumento per il divinatore. In effetti, l’aspettativa tradita, la disillusione dopo l’illusione veniva considerata una grande sciagura che soltanto il sacrificio poteva essere sanare. Segni e simboli linguistici accompagnavano il percorso divinatorio: i segni erano fondamentali nel rapporto comunicativo tra il divinatore e l’interrogante; mentre i simboli, sovente fumosi ed esoterici, miravano ad esplorare il significato profondo dell’esperienza umana al fine di trarne l’atteso responso.
Sapi, Pomdo, cm.11,7 Guinea, sec. XIV/XV, pietra
Nelle terre comprese tra la Sierra Leone e la Guinea e marginalmente la Liberia, i ritrovamenti di antichi manufatti da parte delle popolazioni Kissi e Koranko ( Guinea e Sierra Leone), dei Mende e Kono (Sierra Leone), dei Toma-Loma (Guinea e Liberia) e da altri popoli stanziati in quell’area, non costituisce un evento straordinario. Lavorando nei campi, gli agricoltori locali si imbattevano in vestigia risalenti a secoli precedenti, piccole statuette antropomorfe di steatite appartenenti agli antichi Regni dei Sapi, regni che si estendevano lungo le coste della Sierra Leone nei secoli precedenti e che presumibilmente hanno raggiunto il loro apogeo tra il XV ed il XVI sec.d.C. I Kissi le chiamavano “pietre dei morti” ovvero “pomtan” (sing. pomdo) e le utilizzavano nei loro altari, negli oggetti di culto e nei corredi funerari, attribuendo loro, stante l’origine misteriosa, una grande valenza apotropaica . A ben vedere siamo difronte ad una situazione che dal punto di vista interpretativo costituisce una vera e propria sovrapposizione semantica: quelle statuette infatti, vivono di una duplice esistenza: prima con i Sapi che le scolpirono e poi con i Kissi che le riutilizzavano dando ad esse nuovi significati. In anni successivi si sviluppò la tradizione di replicare le antiche statuette antropomorfe scontando ovviamente una risibile qualità artistica, rispetto alle produzioni originarie dei Sapi dei secoli antecedenti. Questo compito era appannaggio della casta di artigiani-sorciers che le utilizzano nelle loro pratiche magico/religiose. A questo proposito, Aldo Tagliaferri ha indagato alcune di queste statuette che esprimono il senso e la pratica del sacrificio secondo modalità proprie della cultura dei Sapi (3)
Secondo l’autore:« Le sculture che raffigurano un dignitario legato sono degne di nota, a parte ogni valenza estetica, perché conservano e tramandano il significato sacrale della costituzione della regalità che, come sappiamo da René Girard, passava attraverso la scelta di un capro espiatorio mediante il quale si liberava la tribù dai mali che la affliggevano; probabilmente, in origine, il re veniva ucciso, e in ogni caso non si può negare, in Africa, l’esistenza di una ideologia secondo la quale il capo poteva, o doveva, essere ucciso ».( 4)
Il significato magico attribuito alle statuette pomtan esprime la necessità individuale e della comunità, della costruzione del rapporto con la divinità mediante l’offerta/sacrificio e la violenza del rituale. Nel paradigma sacrale, infatti, offerta e sacrificio cruento sono le strutture portanti di ogni cultura religiosa, rintracciabili nei testi sacri di ogni popolo. Secondo Mircea Eliade, lo storico rumeno delle religioni, il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia. L’esperienza del sacro è infatti indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che abbia significato. L’offerta/sacrificio destinata alla divinità non consiste soltanto nel tentativo di trarre vantaggi e protezione; sulle tracce degli scritti di René Girard, pare plausibile affermare che con il rito sacrificale la comunità tenta di esorcizzare l’ineliminabile violenza insita in ogni cultura ed ogni organizzazione sociale. Di conseguenza, l’offerta del corpo e del sangue di colui che è designato, metaforicamente o fisicamente al ruolo di capro espiatorio, è volta simbolicamente a sublimare gli eventi distruttivi ed ogni possibile atto violento. Questo rituale, è esente da ogni contropartita, da ogni ritorsione, da ogni vendetta, essendo condiviso e socialmente accettato. Attraverso il sacrificio, di conseguenza, la comunità esorcizza la spirale di quella distruttività che minerebbe fin dalle fondamenta l’equilibrio e l’esistenza della comunità stessa. Un rituale questo, affatto appannaggio di comunità primitive. Riferendosi al rito del sacrificio nella religione cristiana, scrive Girard « Io non ho alcun merito né dò prova di particolare perspicacia quando dico che Gesù è un capro espiatorio, giacché lo dice il testo, nel modo più chiaro, designando la vittima come l’agnello di Dio, la pietra scartata dai costruttori, colui che soffre per tuti gli altri…» (5)
Ritornando nel continente africano culla dell’umanità, in quell’Africa sub-sahariana crogiolo di popoli ed etnie, anche qui il rapporto con la divinazione ed il sacro hanno caratterizzato la gran parte dei riti e delle pratiche religiose. Questi popoli, impropriamente definiti primitivi da un’ erronea e presunta superiorità culturale, nel corso della loro millenaria storia, prima dell’incontro con l’uomo bianco, hanno dovuto necessariamente confrontarsi con un ambiente naturale, a volte particolarmente ostile, dove la sopravvivenza era messa alla prova ogni giorno. Figure ed oggetti carichi di simbolismo ieratico/religioso, investiti di significati salvifici sono ravvisabili in pressoché tutte le innumerevoli etnie del continente. Uno di questi, è la figura magica dello n’kisi.
Kongo. Nkisi, cm.10,6
Comprenderne il suo significato reale e simbolico non è un’operazione di facile immediatezza. E’ necessario in modo preliminare, conoscere il contesto in cui viveva il popolo Kongo nel sud-ovest di quella nazione oggi denominata Repubblica Democratica del Congo, in cui la figura magica dello n’kisi era preponderante. Una comunità questa, senza alcuna tecnologia a disposizione, esposta ad ogni rischio e pericolo, dalle carestie alle epidemie, dalla minaccia del fuoco o dell’acqua, dalla ferocia dei nemici e delle belve della foresta. In questo ambito appare la figura magica. Lo n’kisi è il nome generico di un oggetto, quasi sempre una statuetta lignea di forma antropomorfa o zoomorfa, investita da uno o più spiriti volti a potenziare il potere dell’individuo e della comunità che lo deteneva. Lo n’kisi (o i minkisi, se sono più di uno), era destinato pertanto a proteggere l’individuo e la comunità da ogni minaccia, ed in particolare, dalla stregoneria, vissuta quale suprema causa di ogni possibile evento negativo. Un oggetto diventava uno n’kisi soltanto quando, dopo essere stato scolpito dal fabbro, è stato consacrato dal diviner ( o nganga), mediante l’investitura magica del bilongo, un contenitore posto sul corpo della figura. Nel bilongo erano custoditi materiali etereogenei di varia natura, quali elementi vegetali (luyala), gesso bianco e carbone ( luhemeba e kala zima), frammenti di fungo (tondo), polvere rossa per neutralizzare gli spiriti maligni ( nkandikila) e molto altro ancora. Il rapporto che vincolava lo n’kisi con il suo possessore era magico. Un ruolo quello del diviner, altrettanto riconosciuto all’interno della comunità quanto quello del capo villaggio. R.P.J. Van Wing, sintetizza questa situazione «La gloire du nkisi, c’est d’avoir un maître en vie. Le chef a son autorité, le féticheur a la sienne»( 6 )
Una figura dello n’kisi a volte era raffigurata in una scultura con le sembianze del cane, denominato mbwa, (in alcuni testi nkonde oppure makhuende) e ciò non era affatto una scelta casuale. L’utilizzo di cani nella mvita, o guerra spirituale, contro forze ostili non era che l’intensificazione rituale dell’insita capacità dei cani di annusare, rintracciare ed annientare la preda.
Kongo, mbwacm.14,5
I cani poi, muovendosi liberamente e senza limiti tra villaggio e foresta, attraversando cimiteri, sia di giorno che di notte, rappresentavano per quel popolo, il contatto duale tra il mondo materiale e quello dell’invisibile, tra quello dei vivi e quello degli antenati: personificavano, in una parola, l’inscindibile rapporto tra i due mondi. «Au chien, cet indispensable complice des chasseurs, est attribué le rôle de traqueur de sorciers et de gardien de maisons, son image sculptée suffisant à protéger le village des esprits malins» (7)
Queste figura, al di là dei significati magici ad essa attribuiti, è da un lato l’espressione della maestria e della fantasia scultorea degli artisti di questo gruppo etnico, dall’altro il fedele specchio di una comunità, sociale e famigliare, governata dalla necessità di una proficua e diuturna relazione con il mondo dell’inconoscibile. La complessità di questo rito, la sua articolata realizzazione, l’insieme dei materiali di corredo evidenziano la grande valenza del suo significato ieratico/religioso. Il valore simbolico ad esso attribuito travalica ogni attribuzione folkloristica, ogni semplificazione di ingenuo ed infantile paganesimo. L’individuo al contrario esprimeva con quell’evento, la sua profonda devozione al rito. Esso soltanto, infatti, poteva garantirgli la possibilità di accedere al mondo delle temute forze dell’invisibile ed al rapporto con gli antenati, custodi della storia e delle tradizioni famigliari e comunitarie. L’elemento unificante e condiviso del rito era di fatto la struttura culturale portante destinata a stringere e rafforzare i criteri identitari della comunità. Nessuna di queste realtà etniche, infatti, avrebbe potuto perpetuarsi senza il ricorso ad entità protettive, sovente individuate nel rapporto con il mondo dei loro antenati, fatti oggetto di cura, devozione e preghiera. Conclusione La figura della statuetta pomtan della Guinea, che si riferisce al paradigma dell’offerta/sacrificio e quella divinatoria dello n’kisi sono soltanto due tra le molteplici esemplificazioni della valenza del sacro all’interno della cultura animista dei popoli antichi africani. Sarebbe estremamente riduttivo ricondurre quella cultura a mero feticcio esotico, superstizione, ingenua creduloneria, in una parola ad un’epoca primitiva intesa nella peggiore accezione possibile. Un’operazione codesta crudele sul piano etico ed ingiustificata su quello storico. La Storia è scritta dai potenti e dai vincitori. Anche la Storia delle Religioni ha seguito il medesimo destino, riservando ogni nobile forma di manifestazione del sacro alle civiltà economicamente più progredite. Sia a livello semantico che simbolico, quale differenza sussiste tra un cristiano che prega in una chiesa, un ebreo nella sinagoga, un arabo nella moschea, un buddhista nel tempio ed un animista che si rivolge alle divinità che presiedono le forze ostili per invocarne la clemenza e la protezione? Forse i rituali più conosciuti delle religioni sono più profondi e carichi di ieratico mistero di quelli dei popoli primordiali? E’ sufficiente addentrarsi di un solo passo nella conoscenza dei riti dei popoli d’Africa per imbattersi in una fenomenale forza divinatoria capace di astrazione e di visione profetica. Prostrarsi in raccoglimento dinnanzi alla statua della Vergine Maria, o di quella del Buddha, invocandone i favori è qualcosa di diverso da un diviner che interroga una grande statua Songye al fine di scongiurare eventi esiziali per la comunità?
Kongo Dondo. N’kisi Kondi, cm.52
E che dire dell’iconografia sacra di S.Sebastiano trafitto dalle frecce o di S.Lorenzo sulla graticola… è davvero così aliena da quella di uno N’kisi Kondi trafitto da chiodi e lame o da quella del Mbulu-Ngulu, il sacro reliquiario del popolo Kota del Gabon, custode delle ossa degli antenati?
In realtà non sussiste nessuna differenza simbolica tra i testi sacri di ogni religione ed i riti dei popoli primordiali perché tutti, con modalità proprie, sono espressione di quella cultura che origina dagli archetipi universali di un inconscio che Jung, non a caso, ha definito collettivo. Prendersi cura di sé e della comunità, non ha confini e si esprime nelle modalità più disparate, valicando il mondo visibile e quello dell’invisibile, là dove origina il nostro pensiero, sia esso declinato in qualsivoglia lingua e cultura.
1 Giorgio Manzi, Homo sapiens era solo una possibilità, Corriere della Sera, La Lettura, Milano, 29 agosto 2017, pag. 9.
2 Marc Augé, Il dio oggetto, Maltemi Editore, Roma, 2002, pag. 137.
3 Le informazioni riguardanti il Regno dei Sapi di Aldo Tagliaferri sono desunte dalle descrizioni contenute nel Tratado breve dos Rios de Guiné di A. Alvares de Almada (1594) e nella Descriçao da Serra Leoa e dos Rios de Guiné do Cabo Verde, di André Donelha (1625). Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle Religioni di Boston il 24 giugno 1968 in Fragments d’un journal, 1945-1969, Parigi, Gallimard, 1973, pag. 555.
4 Aldo Tagliaferri, Stili del potere, Electa, Milano, 1989, pag. 28.
5 René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1987, pag. 204.
6 “Il vanto dello n’kisi è quello di avere un potente referente sulla terra. Il capo ha la sua autorità, il divinatore ha la sua”. Da R.P.J. Van Wing, Religion et magie in Études bakongo II, Bruxelles, G. Van Campenhout, 1938, pag. 131
7 “Al cane, questo indispensabile complice dei cacciatori, è attribuito il ruolo di inseguitore di stregoni e e guardiano delle case; la sua immagine scolpita è sufficiente a proteggere il villaggio dagli spiriti maligni”. Da Marc Leo Felix, Art & Congos, Bruxelles, Zaïre Basin Art History Research Center, 1995, pag. 103.
Mbulu-Ngulu, il sacro reliquiario del popolo Kota del Gabon
Ogni forma d’arte è anzitutto un linguaggio che esprime contenuti, significati, regressioni e slanci…ma, alla fine, quali sono le ragioni, le motivazioni principali che sottendono all’amore per l’arte primordiale, nel mio caso a quella sub-sahariana?
Certamente la bellezza estetica, la fantasia, sobria o allucinata, infinitivamente creativa, l’imprevedibilità delle forme e dei volumi, l’intrico errabondo dei vuoti e dei pieni, la patina erosa o sudante, l’espressività esasperata e feroce, ovvero tranquilla e sognante, delle maschere e delle sculture.
Fang Ritual in Lambarene, Gabon. Courtesy Jean d’Esme 1931
Certo, la storia e lo studio antropologico ed etnografico di una cultura tanto variegata, la sua continuità nel tempo e la persistenza del modello estetico, il suo autonomo statuto iconico, pur nelle sue infinite variazioni e declinazioni ( si veda https://artidellemaninere.com/?s=permanenza)
Di sicuro, tutto questo. Ma altro cova sul fondo e fatica a trovare una via d’uscita. Un’energia conturbate, sotterranea e squassante.
Provare a dare origine e nome a tutto questo è quasi impossibile perché le parole sbiadiscono al cospetto di tale energia. Ma d’altra parte è pur necessario dare forma letteraria ad un evento assai inesprimibile.
Una frase dei Guermantes di Proust, nella prima parte del libro, mi sovviene in aiuto
“Quell’arte – scrive lo scrittore riferendosi ad un suo trascorso slancio – si era fatta gracile ed esangue, priva dell’anima che l’aveva abitata”.
Pende. Photo courtesy Ross Archive of African Images. Publication 1911. Hilton-Simpson, Melville.
Per contrapposizione questa riflessione, rovesciata però, ben si attaglia alla descrizione di quell’inesprimibile prima evocato.
Un’arte, quella primordiale, affatto spogliata dall’anima che l’abitava, anzi, al contrario, ricca di quell’anima florida e pulsante perché espressione diretta dell’inconscio etnico collettivo (che esprime energia nella forma plastica delle maschere, delle sculture e perfino nei raffinati oggetti d’uso), ma che diviene evento di una teologia pagana avulsa da abusate classificazioni, perché origine ed originaria, allo stesso tempo, di propri e peculiari significati, valori e misteri.
Una complessa cosmogonia che si traduce in un’infinità di entità superiori in perenne lotta con le forze ostili della natura e della stregoneria e che si esprime anzitutto e precipuamente, attraverso il culto degli antenati, autentici custodi del benessere e della prosperità del clan.
Songye Statue, Congo, Early 20th Cen. Courtesy Photograph by Boris Kegel-Konietzko.
Attraverso rituali, spesso segreti ed indecifrabili, la presenza dell’inconscio si palesa negli oggetti sacri all’uopo utilizzati che sono diretta espressione della forza dello spirito; non c’è distanza infatti, tra l’oggetto, lo spirito e la dimensione plastica della maschera e della scultura. Esse non sono la riproduzione dell’effige del sacro, come ad esempio i nostri crocifissi, bensì l’espressione diretta ed immediata del soprannaturale e del magico.
Il concetto di inconscio, tipico della cultura occidentale di fine XIX sec. , in questa realtà, va inteso come forza ed energia costitutive dell’etnia e mai dell’espressione dell’agire individuale; è il gruppo o meglio, la peculiare cultura etnica collettiva che esprime i propri contenuti all’interno di una consolidata ritualistica condivisa e riconosciuta.
Lwena performer, first half of 20th Cen, Zambia, photographer unknown
Anche per questo motivo l’opera d‘arte africana non è mai del singolo individuo, sebbene la mirabile mano di qualche fabbro/scultore sia riconoscibile; l’eccelso artista però, anche in questo opera comunque al servizio della cultura etnica di appartenenza.
Mentre nell’arte occidentale, è la perizia dell’artista a determinare l’esito dell’opera, in quella tribale, al contrario, è l’adesione al canone culturale a risultare dominante, sia pure nelle mille variazioni dovute alla mano dello scultore.
Il rapporto diretto tra l’esecutore, l’oggetto e la sua funzione, fa sì che l’opera si esprima senza mediazione alcuna e risulti intimamente legata allo spirito creatore, cioè a quello che ho definito inconscio etnico collettivo.
La fascinazione insita in quella potenza ancestrale erompe con energia tellurica sul modello artistico/estetico che noi abbiamo conosciuto e studiato, lo disarticola e ci costringe a confrontarci con le infinite possibilità espressive che la mente umana, in ogni luogo, può concepire e creare.
Elio Revera
Teke. 1957 chef Balali Photo courtesy Michel Huet.
Alcuni anni fa, incuriosito dall’insolito titolo Sculptures Africaines. Fragments du Vivant della coll. Durant – Dessert, ho visitato alla Monnaie di Parigi un’inconsueta e spiazzante esposizione dedicata ai manufatti africani erosi dal tempo, feriti e mutilati dalle loro vicissitudini, sovente ridotti a simulacri dell’antica opera. Negli stessi giorni concludevo la lettura del romanzo Crash dello scrittore inglese J. G. Ballard, nel quale uomini e donne si auto-infliggono o infliggono ad altri, ferite e mutilazioni sul corpo, in nome di un aberrante codice etico ed estetico. Per capirci, un protagonista del romanzo afferma: «Per lui, ferite del genere erano le chiavi di una nuova sessualità, generata da una perversa tecnologia; e le loro immagini stavano appese nella sua galleria mentale come oggetti esposti in un museo da macello.»
Il corto circuito prodotto in me da questa fulgida antinomia fu potente quanto imprevisto: mi trovai di fronte allo stesso tempo, oggetti inanimati pieni di vita ed esseri viventi intrisi di morte.
Al banchetto dell’ineffabile, stavolta, Eros e Thánatos si son davvero scambiati di posto!!
Compresi in un illuminante insight che le cose potevano effettivamente coesistere e che una tale aporia era di fatto possibile.
Qui di seguito, nel merito, ho provato a fare alcune riflessioni che riguardano sì opere africane, ma che sottintendono un codice di energetica ermeneutica vale a dire, la potenza espressiva del frammento.
Guardo e mi osservano figure erose e scortecciate, un lungo sguardo muto che attraversa i millenni e lo spazio siderale di una cultura aliena, la mia, ma uniti da un destino comune, il nostro, quello di esseri umani.
Cosa mi dicono quelle forme arcaiche che già io non conosca? Mi parlano di un’origine remota, laddove coloro che prima le hanno immaginate e poi create, hanno convissuto con il dubbio ed il rimpianto.
Bongo, Sud-Sudan cm.92
Il dubbio, compagno di ogni artista creatore, di riuscire a trasferire in quelle forme l’afflato dell’anima ispiratrice ed il rimpianto, dopo la creazione, di un’occasione perduta, perché sempre, accanto alla creazione, è l’enigma di quel che poteva essere e non è stato, ad accompagnare le fragili certezze dell’autentico artista.
Osserviamo. Le sculture, due figure funebri Bongo del Sud-Sudan e Konso dell’Etiopia, hanno in comune un gesto atavico, ritmato da precise angolature che evidenziano la cogente assenza di incertezza e dubbio: quelle braccia trattenute sui fianchi per devozione, nella figura Bongo, è una soluzione euclidea che regola sia la geometria che la preghiera.
Konso, Etiopia, cm.121
Un gesto di devozione pudico, affatto maestoso, un trattenere le braccia accostate, senza enfasi alcuna, perché nell’enfasi l’uomo assurge a semidio e devìa da un raccoglimento silente e devoto. Lo stesso significato per la figura Konso protesa in alto in una filiforme struttura crestata, come meritano gli eroi di quell’etnia.
Nondimeno, l’elemento simbolico è il medesimo ed il percorso interiore affatto dissimile perché la preghiera non necessita di contenitori privilegiati quando è sincera e nasce da un’autentica devozione.
Stilisticamente questa “stele” coniuga sul piano iconografico la perfetta sintesi culturale di una filosofia sospesa tra terra e cielo.
Questo, non altro, è il senso di un’estetica che rifugge il valore meramente plastico e si prefigge il rispetto di un canone sedimentato nei secoli, ma immanente, nell’attimo in cui è evocato dalla preghiera.
C’è in queste opere un’urgenza di svincolarsi dalla stessa iconografia che rappresentano, dalle stesse immagini che promanano.
L’elemento frontale unitamente a quello verticale sovrastano ogni immanenza percettiva: non pare necessario voler cogliere il profilo scultoreo o tantomeno l’elemento dinamico.
Tutto ciò contribuisce ad una solida percezione di eternità: qui ed ora, senza rimandi, tale è l’impeto che suggeriscono queste immagini. Perché l’hic et nunc, appare manifesto, audace, perentorio.
Urhobo, Nigeria, cm.49
In questa scultura nigeriana dell’etnia Urhobo, l’aspetto monumentale lascia lo spettatore allibito ed attonito. La fissità della figura è premeditata. Niente deve ingiungere il distacco visuale dallo sguardo imperioso del personaggio principale e dalle teste dei nemici ai suoi piedi, riprodotti in scala dimensionale ed incorporati nella medesima statua; come se un pur minino distacco allontanasse una congiunzione prima emotiva che visiva, come se una parentesi di lontananza, potesse sfuggire al controllo ieratico e portentoso della figura.
Urhobo, dorso
La cifra stilistico/estetica pertanto, insieme alla monumentalità verticale, è quella dell’intensità del contatto emotivo, dell’impossibilità del distacco, della forza di concatenamento tra figura e spettatore. Una sensazione di legame ferrigno che intercorre tra i due poli osservatore/osservato che induce un’alchimia di appartenenza senza mediazione, né sottomissione alcuna, puro contatto stringente in un’unica ieratica aura. In ciò sta la forza di un’estetica delle rovine, come scrisse René de Chateaubriand, sia pure in un contesto molto diverso, un’estetica consunta, sbrecciata, arsa dal tempo e dalle vicissitudini, ma vieppiù dirompente, energica e catturante.
Kabye, Nord-Togo, cm.31
Kabye, dorso
Allo stesso modo, la figura di questa scultura Kabye del nord del Togo stempera la supremazia della verticalità, ma non per questo sfugge alla celebrazione monumentale.
Anche in questo caso, il contatto è immediato e stringente, la dimensione dell’appartenenza emotiva è prorompente. Pare quasi che l’artista abbia voluto abolire ogni elemento decorativo, ogni orpello descrittivo o ludico, finalizzando l’energia complessiva nell’intensità catturante e misteriosa della postura trattenuta e dello sguardo sbirciante.
Un ulteriore elemento di esegesi critica alla decifrazione di quest’arte primordiale: la sobrietà, l’essenzialità e l’unitarietà espressiva.
Igbo, Nigeria, cm.72
Questa figura Igbo, anch’essa della Nigeria meridionale, apparentemente scabra, è in realtà simulacro simbolico che condensa l’essenza del suo fine, non edulcorato né ammansito da rumorosi quanto inutili decorazioni; la sua forza sta nella presenza compatta, essenziale, che propone, anzi impone, la medesima intensità di partecipazione a quanti intendano condividerne il sotteso messaggio e l’immateriale dono spirituale.
Immaginare di poter decifrare il valore estetico prescindendo da significato simbolico/religioso non pare un’operazione possibile per la statuaria dell’Africa antica.
Ogni scultura trasuda un’aurea mistica che la rende anzitutto oggetto di venerazione prima che di contemplazione; per questo è ben difficile estrapolarne il senso, anche quello artistico, prescindendo dal significato simbolico.
Più che per altre produzioni artistiche, a torto considerate per decenni “primitive”, questa statuaria vive di una stretta, intima correlazione, con la connotazione primigenia che l’ha generata: la celebrazione degli antenati e la preghiera a loro rivolta: più che rappresentare le divinità, sono l’effigie della volontà del contatto mistico/religioso
Un’arte, pertanto, che non celebra l’iconografia del divino, bensì postula l’intimo legame che conduce agli antenati mitici attraverso la preghiera e la ieratica concentrazione spirituale, in opposizione alla forze invisibili ed insidiose della natura.
E questo rende umanissime quelle opere e tanto più son prive di seduzioni estetizzanti, con più forza sono ricche di pathos meditativo.
La cultura occidentale fa fatica a coglierne l’essenza; forse l’iconografia di queste produzioni, scabra e macilenta in tanti casi, urta il sentimento di opulenza, eleganza e celebrazione che l’occidente esige da un’opera d’arte.
E tuttavia è proprio in tale spazio che dimora la cifra stilistica ed estetica di queste opere “tribali” : nel valore simbolico primigenio del rapporto col divino, un nesso perentorio e secolare.
Ho sempre amato abbeverarmi alle fonti del passato, sebbene, sovente, siano fonti inquinate da pregiudizi e cattive interpretazioni.
E’ in conseguenza di ciò, che in questo lavoro, i protagonisti saranno i pensieri e le affermazioni dei pionieri delle Avanguardie artistiche del primo novecento.
Non intendo con questo riproporre l’annosa polemiche su Arte Africana , Cubismo, Arte astratta ecc…in altri miei scritti ho esaminato la questione e mi sono convinto che l’Arte dell’Africa Nera goda di un proprio autonomo statuto estetico. Banali semplificazioni esegetiche sono di fatto inutili e fuorvianti.
Mi scrive sull’argomento Vincenzo Taranto, un collezionisata che insieme alla passione coltiva un acuto ingegno :
“Accostare un’opera d’arte africana ad un’opera d’arte occidentale è un’operazione di per sé corretta, se l’accostamento è “alla pari”. Ovvero, associare una maschera africana ad un volto di un famoso artista delle avanguardie dovrebbe avere il solo fine di far riflettere su come la vera arte non abbia confini geografici ed anzi, è proprio l’arte tribale ad aver ispirato, in molti casi, l’arte occidentale. Quel che accade però è che l’arte occidentale è usata come stampella dell’arte africana, quasi a doverne “giustificare” il valore artistico ma soprattutto monetario. Se il collezionismo è fatto sempre più da outsider (per lo più collezionisti di arte moderna e contemporanea), la scorciatoia più facile da imboccare è quella di presentare e vendere non una maschera Pende, ma una “estensione” di Picasso…. qualcosa vestito dall’arte europea. Come ricorda Sally Price nel libro “I primitivi traditi”, quello che arriva alla mente del collezionista è che Les Demoiselles d’Avignon vengono prima dell’arte africana (in questo caso la maschera Pende), e non viceversa (come in realtà è).
Pablo Picasso, particolare dè Les Demoiselles d’Avignon (1907) e maschera Pende, Congo, detta della Malattia
Anche il fenomeno dell’ attribuire maestri, artisti, stili e scuole – che se fatto con studio e cognizione di causa risulta essenziale per togliere l’artista dallo sciocco (pre)concetto dell’anonimato – è diventato invece la (rin)corsa all’artista più quotato del mercato (vedi Maître de Bouaflé per i Guro). Il silenzio, inteso come profonda riflessione sull’Arte Africana quale arte con una valenza estetica autonoma è molto spesso sostituito dal baccano fatto dai tanti Balanzone che masticano l’arte africana nel rassicurante e domestico contesto in cui “tutto rimanda all’arte occidentale”.
Anche per questo, in questo lavoro, infatti, intendo semplicemente riproporre i pensieri originari dei pionieri del primo novecento circa la nuova scoperta artistica, gustandone la loro stupefazione naïf .
Non posso che iniziare da colui che accidentalmente si imbatté in una maschera bianca e che diede il via, almeno dal punto di vista cronologico, a tutto il movimento d’interesse per l'”arte negra”: Maurice de Vlaminck.
Alle spalle del pittore si intravedono le sagome di un Byeri Fang e di una maschera, forse Ngbandi.
Ascoltiamo il suo ricordo. “Un pomeriggio dell’anno 1905 mi trovavo ad Argenteuil. Stavo dipingendo la Senna, le imbarcazioni, le colline. Il sole batteva forte. Radunati colori e pennelli, presi la mia tela ed entrai in un’osteria…Mentre mi rinfrescavo con vino bianco, notai, posate su una mensola, tra bottiglie di Pernod, tre sculture negre…queste tre sculture mi colpirono profondamente. Ebbi l’intuizione di ciò che esse contenevano in potenza. Esse mi rivelarono l’arte negra. Riuscii, con l’insistenza dell’oste, a comprarle.
…qualche tempo dopo, un amico di mio padre si offerse di donarmi alcuni pezzi in suo possesso, poiché sua moglie voleva gettare alle immondizie quegli orrori. Mi recai da lui e portai via una gran maschera bianca e due superbe statue della Costa d’Avorio. Appesi la maschera bianca sopra il letto. Ero nello stesso tempo felice e turbato: l’arte negra mi appariva in tutto il suo primitivismo e in tutta la sua grandezza”.
A questo punto il racconto di Vlaminck assume le note di una gustosa pochade di inizio secolo.
“Quando Derain arrivò alla vista della maschera bianca, restò interdetto. Era soffocato e mi offrì venti franchi perché gliela cedessi. Rifiutai. Otto giorni dopo me ne offrì cinquanta. Quel giorno ero senza un soldo: accettai. Si portò via l’oggetto e lo sospese al muro nel suo studio di via Tourlaque. Quando Picasso e Matisse videro la maschera da Derain, essi pure ne furono sconvolti. Da quel giorno iniziò la caccia all’arte negra!”
André Derain
Penso sia il momento di mostrare quella mascherà che tanto sconvolse e mutò il corso della storia dell’arte.
Maschera Fang, Gabon .Legno dipinto, h cm 48, Musée National d’Art Moderne Centre Georges Pompidou, Parigi
Anche Henri Matisse ha da raccontarci una sua storia.
“Passavo spesso allora per la Rue de Rennes, davanti al negozio di Padre Sauvage. Aveva in mostra delle statuette negre che mi colpirono per il loro carattere e per la purezza delle loro linee. C’era del bello, come nell’arte egiziana. Ne acquistai allora una e la mostrai a Gertrude Stein, dalla quale mi recai quel giorno. Ed ecco che arriva Picasso, il quale se ne entusiasma di colpo. Tutti si misero allora a cercare le statuette negre, che a quel tempo si trovavano assai facilmente.”
Henri Matisse
Emil Nolde, un artista danese dell’espressionismo, intuisce la forza tellurica ed universale delle opere “primitive”.
Emil Nolde, Mask Still Life III, 1911
“I prodotti artistici dei primitivi sono irreali, ritmici, ornamentali, come certo è sempre stata l’arte primitiva di tutti i popoli…Tutto ciò che è primitivo e primordiale ha sempre incatenato i miei sensi. Il grande mare rumoreggiante è ancora nel suo stato primordiale ed anche il vento, il sole, perfino il cielo stellato, sono ancora quasi come erano cinquemila anni fa”.
E non posso che concludere con il pensiero dello scultore e pittore Ugo Attardi che non ha mancato di cogliere l’elegia poetica dei manufatti africani.
Ugo Attardi
“Nella scultura negra, nelle maschere dalle fronti possenti e sporgenti, nelle ombre nere che si addensano sugli occhi di questi volti, si può cogliere buona parte del senso che ha la vicenda dell’uomo su questa terra. Su alcune di queste immagini di volti umani si riassume tutto il valore di potenza e di fragilità che ha l’uomo nel rapporto con la natura, la forza magica della sua mente ricca e maligna; si comprende quanto antico sia il suo dolore, quanta avversità la circonda, quanta conoscenza egli ha della morte, ma come sia forte, al tempo stesso, il suo seme e la sua anima”.
Tristan Tzara
Immaginifico il pensiero di Tristan Tzara, co-fondatore del Dadaismo:
“L’arte, nell’infanzia del tempo, fu preghiera. Legno e pietra furono verità”.
Translated, revised and edited by Ilaria Pol Bodetto
Also from the collection is the following photograph by Ulli Beier, from his Yoruba Children series
And, consequently, what place did Art occupy in said cultures?
Certainly a similar notion, if we accept Western conventional definition, was unknown. However, if, by art, we mean “a visual object or experience consciously created through an expression of skill or imagination” (Encyclopaedia Britannica) therefore we can affirm, without fear of being misleading, that such a concept certainly existed.
But let’s take a closer look.
The immanence of beauty, expressed differently by every cultural expression in every age, is not a peculiarity of those cultures which have been labeled as “evolved” by outdated Western interpretative criteria. Beauty involves, instead, the whole history of humanity.
Altamira, Spain
Is it really possible to imagine that someone, among the hunter/gatherer population of Altamira which lived in Spain 15.000 years ago, suddenly decided to decorate the famous cave with rock paintings? And that such an action was the product of ordinary individuals, just like that, as a way to pass the time?
That magnificence was, indeed, the work of individuals intuitively attracted to beauty, and endowed with the necessary abilities to translate their creative genius into a painting.
Same thing can be said with regard to the carved rocks which bear witness to the life of the ancient Camuni people, who occupied the Italian Val Camonica (Cividate Camuno, Brescia) during the Paleolithic era – 8000 years before the birth of Christ. The rocks are characterised by animal figures, most of them representing stags, carved with rudimentary tools made of siliceous rock.
What’s left of those ancient populations is just their artistic heritage. As for African cultures, on the contrary, their oral tradition is still alive and constitutes a decisive factor in asserting the presence of a concept of beauty in art.
In the words of Raoul Lehuard: “Pour la région qui nous concerne le plus directement, le Bas-Zaïre, les populations Bakongo possèdent un mot qui désigne à la fois celui qui crée avec telent, ingéniosité et dextérité; celui qui exerce son métier avec génie. Il s’agit de Mbangu, et ses dérivés Ambangu, Umbangu. Ce vocable désigne également la rectitude d’une chose qui ne serai rien sans cette rectitude: une poutre faîtière, par exemple, un alignement, l’assise d’un bâtiment, la tradition”. (AAN, n.74, 1990).
And Albert Maesen, in turn: “Dans certains dialectes Kongo, le mot Umbangu désigne à la fois le génie créateur et le fait de s’insérer dans une ligne tracée qui n’est autre que la tradition ancestrale” (Umbangu, Bruxelles, 1960).
At the same time, Marie-Louise Bastin, in relation to the Chokwe people of Angola, tells us that the word Utotombo is used to indicate a well done and functional object, made with great skills and love (L’Art d’Afrique Noire dans les collections privées belges, Bruxelles 1988).
These three written evidences are enough to wipe out any stereotype concerning classical African art, like those which refer to the casualty of beauty, to unpremeditation, to the production of objects without a draft or a concept to support their material creation – and several other amenities.
What stated above, however, does not imply that the Western world has stopped mystifying African art – as suggested by Peter Mark in an articulate paper Est-ce que l’art africain existe? ( Revue française d’histoire d’outre mer, tome 85, n.318, 1998). “Il ne s’agit pas moins que de recréer la discipline de l’histoire de l’art africain”, he writes. “Il faudrait d’abord éviter la mystification du sujet. Et il faudrait situer les objets étudiés dans leur contexte historique. Comme l’a écrit l’historien Mamadou Dawara, “abandonner le primat de l’esthétique et travailler plus sur des aspects historiques et anthropologisques s’impose”.
If the necessity of a historical approach towards African art is certainly commendable, at the same time I recognise that favouring the anthropological/historical aspects of African art is nowadays an outdated attitude.
Yaka mask
The contrast between history of art and ethnography has long been a reason of conflict for generations of scholars, and only at the end of the last Century the two polar positions managed somehow to come to terms with each other, in particular thanks to the works of Sally Price – in my opinion, a true tipping point.
Thanks to her, the non-existent contrapposition between the ethnographic object and the artwork, between primitives and Western artists, is finally for everyone to see.
The art of the “savages” obtains recognition through the study and valorisation of the cultural environment in which it was generated: no longer an anonymous art, but art made by unknown artists – unknown because of the lack of Western interest in delving into their culture and society.
Yaka people
As Federico Zeri, the great historian and critic of Western Art, wrote in the introduction to Price’s work Primitive Art in Civilized Places, (1989) “…Les faux critères d’atemporalité et d’anonymat, appliqués généralement aux primitifs, sont ceux-là même qui dénaturent les æuvres de nos siècles obscurs…”
In my opinion, we can therefore give an answer to our initial question, affirming that the concept of Art has always been part of African cultures, although of course conceived and expressed differently from Western criteria.
The prevalence of a hieratic meaning in African sculpture, in fact, does not invalidate the inner quality of its products – in the same way European culture shouldn’t be judged on the basis of the religious inspiration and target of much of its artistic production.
Western prejudice and arrogance labeled the so-called tribalart as a mere exotic curiosity, worthy of a Wunderkammern, if anything, rather than a museum. It separated African art from the cultures which generated it, making it anonymous, despising its symbolic meaning… in a word, it applied the same kind of colonialist policy it adopted against the conquered communities.
PicassPende
Then again, why would Colonial Empires explore, study, and appreciate the work of “savage primitives”, whose sole purpose was now to be at the service of the white bringers of civilisation?
Here lays the heart of the matter: transformed into an aesthetic fetish, into a mere ornamental object, a curiosity from a faraway land, the great archaic art of the African continent was subjected to the same kind of treatment its creators experienced – becoming an instrument of a greedy and ruthless colonial imperialism perpetrated by the oh-so-civilised European and American countries.
But, like someone once wisely wrote, “l’arte cura le ferite che crea”, and in fact the re-discovery of the aesthetic value of African art came about by the hands of artists which, although penniless, were rich in taste and cultural sensitivity.
The aesthetic avant-gardes, at the beginning of the XX century, although instinctively, managed to read into those artifacts the manifesto of a new aesthetic, which was destined to revolutionise the art of the century.
MatissPunu
In a certain way, Western art gave justice to African artistic experiences and, in part, started to heal those cultural wounds and injustices numerous populations had been subjected to.
There, I like to think of it like that: those Western artists recognised part of the cultural meaning of African art, paving the way for its re-introduction into the aesthetic and cultural riverbed of mankind.
In spite of certain XXI Century retro-gardes, and their nostalgia for a lost supremacy and, in particular, for the privileges said supremacy used to grant them.
In ogni epoca, in ogni luogo, varie pandemie hanno sovente imperversato causando, in alcuni casi, milioni di morti. Non tutte, però, per quanto virulenti, sono state origine e causa di cambiamenti storici. Lo fu certamente la peste romana all’epoca di Marco Aurelio Antonino, nel II sec.d.C. che aprì successivamente le porte alle successive invasioni “barbariche”. Non lo fu, per esempio, quella terribile conosciuta come “febbre spagnola”, che a partire dal 1918 non fece altro che assommare a centinaia di migliaia di morti della prima guerra mondiale, altri milioni di decessi, ma che è ricordata soltanto come un evento doloroso e tragico, non foriero affatto di alcun significativo mutamento storico. Passata la pandemia che stiamo vivendo oggi, sapremo se il modello capitalistico e socio-economico attuale, la gerarchia dei valori attualmente imperanti, la considerazione delle carestie del cosiddetto terzo mondo, le migrazioni di popoli interi nella disperata ricerca di una sopravvivenza più degna, la paradossale, ingiustissima distribuzone della ricchezza nel nostro mondo, la solitarietà transnazionale … saranno mutati o meno; soltanto allora potremo considerare questa pandemia un evento storico e non soltanto una catastrofe dell’umanità, inutile quanto dolorosa.
La famiglia Considerato l’ultimo quadro di Egon Schiele, olio su tela (152,5×162,5 cm), realizzato nel 1918 e conservato nel Museo Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Il pittore e la moglie Edith furono due vittime illustri della febbre spagnola.
Sempre, l’umanità ha mobilitato le energie della scienza, della religione, della cultura per combattere il diffondersi del morbo, invisibile quanto insidioso. Basta rileggere il prezioso romanzo di Albert Camus, La peste, per ripiombare in un’atmosfera non molto dissimile da quella in cui siamo immersi questi giorni.
Ovviamente i mezzi e le modalità messi in campo dall’umanità, nelle varie epoche e nei diversi contesti geografici e storici, erano quelli al momento a disposizione, ma il fine ultimo era il medesimo: proteggersidal morbo e nel contempo combatterlo.
In un altro mio lavoro, Contra Varìola, (https://artidellemaninere.com/2014/10/28/contra-variola/), ho affrontato lo stesso argomento, contestualizzandolo in relazione a diversi tempi e luoghi. Lo riprendo adesso, sperando di non doverne parlare ancora in un prossimo futuro.
Tre figure di protezione, minkisi. Songye, Repubblica Democratica del Congo, XIX sec. Legno, metallo, chiodi, perle vitree, fibra, tessuto, h. 14,0 cm, h. 14,0 cm, h. 16,5 cm. Photo: Hugues Dubois
(Courtesy, AA.VV. Ex Africa. Storie e Identità di un’arte universale. Skira, Milano, 2019).
Tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900 le terre dei Songye, nella regione centrale della Repubblica Democratica del Congo e nelle aree limitrofe, furono devastate da epidemie di vaiolo. Cyrille van Overbergh, nel suo libro (Les Basonge, 1908) scrive che i Songye, pur essendo uno dei popoli più sani del Congo, furono interessati dalla malattia, sebbene tra di loro il numero dei decessi risultò inferiore a quello registrato presso le etnie vicine. É tra i Songye che si ritrovano numerosi minkisi (singolare nkisi), come i nostri tre, destinati presumibilmente alla protezione personale dal vaiolo. Morfologicamente appartenenti alle regioni centro-occidentali dei Sanga, Ekie Kalebwe, sono caratterizzati da un intensissimo utilizzo di chiodini in legno e metallo che, concentrati sul volto e sul tronco, ne trasfigurano l’identità, come a voler nascondere e proteggere viso e corpo dal possibile contagio. I chiodi, inoltre, con le loro capocchie emergenti, potrebbero altresì rappresentare i bubboni che caratterizzavano gli effetti della malattia. Dunque il potere esorcizzante dei “feticci”, potenziati da artefatti di metallo e rafia, per scongiurare l’impari confronto con il temibile morbo.
Songye Statue, Congo, Early 20th Cen. Photograph by Boris Kegel-Konietzko.
Spero che il lettore saprà comprendere l’intenzione alla base di questo mio articolo; se soltanto vi ho incuriosito e distratto dalla pena dell’animo, anche soltanto per un momento, il mio scopo sarà stato raggiunto.
Questo è come io posso condividere una pena che ci riguarda, tutti quanti, dovunque.
Riprendo alcune riflessioni che, pur essendo di pochi anni fa, necessitano di ulteriore approfondimento, alla luce dello sviluppo ed al verificarsi di quanto avevo raccontato in un precedente lavoro, la cui lettura considero preliminare. (La forza del destino…o del quattrino?)
La domanda più spontanea ed immediata, che mi pongo oggi, riguarda il futuro del collezionismo di arte tribale, africana nello specifico.
L’approccio diffuso del collezionismo di alta gamma è legato alla qualità dei pezzi ovvero soltanto alla sua immediata fruizione estetica?
In altre parole quanto importano la storia antropologica, il significato simbolico, il valore documentale di un’opera tribale, nel momento della sua acquisizione?
L’analisi delle vendite effettuate dalle principali case d’asta, che trattano l’arte tribale, fa emergere senza dubbio alcune tendenze che soltanto da pochi anni si sono radicate nel costume di questo specifico collezionismo.
La prima è una diffusa abitudine di attribuire la stima economica dell’opera alla bellezza intesa come immediata percezione di forme e volumi accattivanti e di immediata fruizione. Perché? A mio parere perché il target collezionistico è quello di potenziali clienti provenienti dal collezionismo di arte moderna e contemporanea per i quali, forme stilizzate ed audaci realizzazioni plastiche, trovano maggiore considerazione rispetto ad altri parametri.
Va da sé che non è certo mia intenzione svilire il gradiente estetico delle opere dell’arte tradizionale africana, ma certamente una cosa è il valore estetico, un altro quello estetizzante, vacuo e senza radici storiche.
La bellezza di queste opere non consiste soltanto nella loro apparenza, ma si coniuga con i loro significati simbolici, con la tradizione ieratica, con il momento storico/geografico che le ha generate; il vero apprezzamento è dato dal ” riconoscere pienamente la diversità culturale, la vitalità intellettuale e l’integrità estetica dei suoi creatori” (S. Price, 1992).
Importano ancora qualcosa queste fondamentali considerazioni o la collocazione dell’opera su di un mobile di design è l’unica preoccupazione?
Voglio pensare che questa tendenza sia per fortuna marginale, ma di fatto, è una linea presente nel mercato dell’arte tribale.
Conseguenza di questa matrice interpretativa, anche se non immediatamente percepibile, è l’ipertrofica importanza all’attribuzione ed alla provenienza delle opere. Relegati a fattori secondari considerazioni etnografiche e significati simbolici, è del tutto evidente che sia giocoforza di massimo interesse, per il collezionista scevro di interesse e conoscenza, quel che prosaicamente è stato definito il pedigree,
Anche in questo caso, non voglio sottovalutare affatto l’importanza di una puntale ricostruzione delle vicende che riguardano la provenienza ed il possesso precedente dell’opera, ma certamente l’esagerata attenzione soltanto a questi fattori conduce a sottovalutare una grandissima parte di opere che, al contrario, meriterebbero un’altra attenzione, stante l’intrinseca loro qualità. E di sicuro, galleristi e case d’asta non sono esenti da responsabilità nel diffondersi di questa dinamica.
La determinazione del prezzo dell’opera, quanto dipende da quello descritto fino ad ora? A mio parere tutto ciò incide sommamente e determina un innalzamento del prezzo, sovente molto lontano dal valore intrinseco dell’opera stessa. Tutto ciò, di fatto, esclude a priori una grandissima parte di potenziali collezionisti e nello specifico di quelli più giovani, notoriamente privi, in generale, di grandi possibilità finanziarie.
La partecipazione ad una sola seduta d’asta, una visita alle gallerie, un tour alle fiere specializzate nelle capitali europee, sono più che sufficienti per confermare l’età media dei partecipanti.
La risposta alla domanda iniziale circa il futuro del collezionismo tribale, alla luce delle semplici considerazioni illustrate, non è pertanto di facile definizione.
A questo proposito, io penso, che una possibile risposta al quesito risieda nel considerare l’approfondimento e lo studio, forse gli unici deterrenti al propagarsi di una moda che privilegia unicamente il censo e l’età del collezionista.
Nello studio dell’arte tradizionale africana sono ancora oggi individuabili ambiti di collezionismo di nicchia, che il mercato ufficiale non considera per svariati motivi, quando non intere produzioni artistiche di numerose popolazioni affatto conosciute.
Il cambiamento di paradigma, da mero contemplatore ad attivo fruitore, è un percorso certamente più ostico, ma immensamente più proficuo e soddisfacente. Favorire questo passaggio è auspicabile sia opera di tutti gli operatori del settore, non orientati unicamente alla valutazione economica delle opere.
Lì, infatti, sta il vero tesoro del ricercatore e del collezionista che, per far questo, non necessità di illimitati cespiti, ma soltanto dell’autentico valore aggiunto di ogni avventura culturale: la curiosità e la passione, che per fortuna, non sono merce riservata soltanto alle élites!
Elio Revera
N.B. Le opere illustrate hanno una caratteristica descritta nell’articolo…. che l’attento lettore avrà già individuato!
E’ ben difficile ed alquanto improbabile, per noi abitanti del XXI sec., con una storia, una filosofia ed una tecnologia millenarie alle spalle, comprendere il significato reale e simbolico dello n’kisi.
Provate però ad immaginare di essere sperduti, in un tempo lontano, nella foresta o savana africane, senza alcun riferimento se non la vostra comunità di appartenenza, senza alcuna tecnologia a disposizione, esposti ad ogni rischio e pericolo, dalle carestie alle epidemie, dalla minaccia del fuoco o dell’acqua, dalla ferocia dei nemici e delle belve della foresta…forse, adesso, il significato dello n’kisi vi diverrà più comprensibile.
Lo n’kisi è il nome generico di un oggetto, quasi sempre una figura antropomorfa o zoomorfa investita da uno o più spiriti che potenziano il potere dell’individuo e della comunità di appartenenza che lo detiene. Il rapporto che vincola lo n’kisi con il suo possessore è magico. In due frasi R.P.J. Van Wing, sintetizza questa situazione «La gloire du nkisi, c’est d’avoir un maître en vie. Le chef a son autorité, le féticheur a la sienne.» (Études bakongo II, Religion et magie, Bruxelles, G. Van Campenhout, 1938, p. 131).
Lo n’kisi (o i minkisi, se sono più di uno), è destinato pertanto a proteggere l’individuo e la comunità da ogni minaccia, ed in particolare, dalla stregoneria, vissuta quale suprema causa di ogni possibile evento negativo.
Un oggetto diventa uno n’kisi soltanto quando, dopo essere stato scolpito dal fabbro, è consacrato dal diviner (nganga) che infonde lo spirito magico nel bilongo, vale a dire nel contenitore posto sul corpo della figura. Nel bilongo sono custoditi materiali etereogenei di varia natura quali elementi vegetali (luyala), gesso bianco e carbone ( luhemeba e kalazima), frammenti di fungo (tondo), polvere rossa per neutralizzare gli spiriti maligni ( nkandikila) e molto altro ancora.
Nella regione del Bas-Congo (R.D.C.), tra le variegate etnie afferenti al popolo Kongo, una particolare figura di n’kisi era utilizzata per gli scopi sopra descritti.
Si tratta della figura del cane, da sempre compagno di vita di quei popoli.
Peculiare è quello della razza Basenji o Cane del Congo, la cui storia si perde nella notte dei tempi. Una leggenda narra che questo cane venisse utilizzato per combattere le belve feroci, ma appunto si tratta di una leggenda.
Questo animale è ancora oggi una delle razze più diffuse in Africa, dove viene allevato come cane da caccia o da guardia.
La scelta della figura n’kisi con le sembianze del cane, denominato mbwa (in alcuni testi nkonde oppure makhende), non è stata naturalmente una scelta casuale
L’utilizzo di cani nella mvita, o guerra spirituale, contro forze ostili non è che l’intensificazione rituale del potere dei cani di rintracciare e annusare la preda. I cani, poi, si muovono liberamente e senza limiti tra villaggio e foresta, attraversano cimiteri, si muovono sia di giorno che di notte e di conseguenza, per quei popoli, sono il contatto duale tra il mondo materiale e quello dell’invisibile, tra quello dei vivi e quello degli antenati: personificano cioè, il rapporto inscindibile tra i due mondi.
“Au chien, cet indispensable complice des chasseurs, est attribué le rôle de traqueur de sorciers et de gardien de maisons, son image sculptée suffisant à protéger le village des esprits malins” (Felix, Art & Kongos, 1985, p. 103).
Nail fetishes, 1902, Boma, Congo
Secondo Robert Farris Thompson, “les tenants de la tradition pensent que ces animaux sont dotés de quatre yeux, deux pour ce monde et deux pour l’autre” (in Falgayrettes-Leveau, Le Geste Kôngo, 2002, p. 50).
Le immagini seguenti illustrano le due tipologie di n’kisi mbwa, vale a dire, per semplificazione, quello con chiodi e lame infissi nel corpo e quello ritto sulle zampe anteriori. Entrambi, però, recano su di loro il bilongo della sostanza magica. Queste figure scultoree sono estremamente rare nella produzione dei Kongo.
1916, Verneau
Courtesy Yale University Art Gallery
La sostanziale differenza tra le due tipologie non è legata a scopi diversificati. Tutte e due sono figure di protezione; il cane con i chiodi, n’kisi nkondi mbwa, era destinato specificatamente alla cura del villaggio, e l’altro a quella più individuale o del clan famigliare.
Questo piccolo n’kisi mbwa dal codino arricciato, è l’immagine di tutte le caratteristiche sopra illustrate.
Galleria Valerie et Pierre Dartevelle, Parcours des Mondes 2019
La scultura del feticcio è definita in una postura di massima all’erta. Il cane è ritto sulle zampe anteriori, le orecchie drizzate, i tondi occhi di faïence scrutanti, le fauci digrignano i denti aguzzi con la piccola lingua rossa penzolante all’infuori e soprattutto reca sul dorso il bilongo, trattenuto da un vetro trasparente che garantisce allo n’kisi di vedere anche alle sue spalle.
Il suo scopo, infatti, quello a cui è stato destinato dallo nganga che lo ha consacrato è infatti annusare, scovare e neutralizzare gli spiriti maligni e stregoneschi garantendo così la protezione ed il benessere della famiglia.
Al di là del valore estetico di questa scultura, a mio parere più interessante è la sintesi concettuale tra l’oggetto ed il suo intrinseco significato. L’aderenza descrittiva sul piano figurale con la valenza simbolica, infatti, appare stupefacente, prospettando un’ulteriore mirabile bellezza estetica.
Come ho scritto nel catalogo Skira dell’esposizione appena terminata a Bologna, Ex Africa, proprio a commento di sculture Kongo, ” queste figure al di là dei significati magici a loro attribuiti, sono da un lato l’espressione della maestria e fantasia scultorea degli artisti di questo gruppo etnico, dall’altro il fedele specchio di una comunità, sociale e famigliare, governata dalla necessità di una proficua e diuturna relazione con il mondo dell’inconoscibile.”
Centro della riflessione è quel che Marc Augé ha definito con la parola surlocalizzazione, vale a dire la modalità esclusiva di percezione dello spazio abitato. Scrive Augé – il luogo è anche un “territorio retorico”, ovvero uno spazio dove ciascuno si riconosce nel linguaggio degli altri, un insieme di punti di riferimento spaziali, sociali, storici: tutti coloro che vi si riconoscono hanno qualcosa in comune, a prescindere dalla diversità delle loro situazioni. (M. Augé 2019)
Tale definizione delinea perfettamente lo status delle etnie africane sparse sul territorio subsahariano, prima, almeno, dell’intervento colonialistico occidentale.
Fra Mauro World Map c.1450
Fino ad allora l’universo materiale, la concezione religiosa, le credenze popolari e le norme regolanti tutti gli aspetti della vita, dalla nascita alla morte, avevano luogo e soluzione nella surlocalizzazione di quel particolare popolo.
Ciò non esclude scambi commerciali e contaminazione culturali tra le etnie viciniori, ma, in definitiva, le caratteristiche principali di una determinata etnia sono rimaste confinate in uno specifico ambito, geograficamente più o meno vasto.
In siffatto contesto storico ed antropologico, la seduzione della sauvagerie è totalmente priva di significato ed anzi, foriera di equivoci ed incomprensioni.
La surlocalizzazione dei popoli della tradizione africana sposta l’ordine delle priorità individuali e sociali e delinea un’aura difficilmente comprensibile (o accettabile) per quanti ne sono esclusi.
Delinea al contrario un universo verticale nel quale sono correlati i significati simbolici e le modalità per esprimerli e trasmetterli alle future generazioni.
‘French Congo, Batéké family. Congo Français. Photograph by J. Audema. ca.1905
La priorità non è pertanto quella della realizzazione individuale, quanto quella d’integro mantenimento della struttura concettuale identificativa di quel popolo nella sua originaria realtà.
Con questa chiave interpretativa sono comprensibili la devastazione e l’annientamento dell’incontro con i bianchi, soprattutto nell’epoca coloniale.
Totalmente spogliati dall’originario universo materiale, concettuale e spirituale, ridotti a mera merce da sfruttare, nulla è stato riconosciuto della loro genialità creativa e tantomeno di quella artistica.
Sarà il destino di giovani scapestrati, all’alba del XX secolo, a riabilitarne, almeno in parte, il valore universale delle loro creazioni.
Fanti Hairdresser, Ghana, circa 1910.
Un’arte, quella tradizionale africana, che per essere riconosciuta ha pagato il prezzo più alto immaginabile: la scomparsa della cultura che l’ha generata se non addirittura dei popoli che l’hanno creata.
Ho scritto che la surlocalizzazione ha stravolto l’ordine delle priorià.
Per le culture occidentali, la rottura del legame col territorio di origine è stata la molla dello sviluppo culturale, economico e sociale, si pensi alle scoperte geografiche, al comparire dell’Umanesimo, al fiorire del Rinascimento, al diffondersi della stampa, del commercio, delle scoperte matematiche ed astronomiche. Ma nel contempo ha creato emarginazione sociale e culturale, desolate periferie, nonluoghi.
Viceversa, l’appartenenza ad un determinato territorio da parte delle etnie africane, di fatto, ha consentito il mantenimento del contesto tribale ed in parte il suo sviluppo e ha permesso l’evoluzione del canone artistico con altre modalità e tempi diversi da quelli dei popoli europei.
Yakoma Village, Congo at the turn of the 20th Cen. Photograph by Jean Audema.
In altra sede ho scritto come – Le immagini dell’arte tradizionale africana, in tale immanenza atemporale, non sono affatto relegate ad un destino di mancata evoluzione, di immobilismo creativo o, peggio, di reiterata e pedissequa ripetizione. In questo statuto iconico, proprio dell’hic et nunc, l’evoluzione iconografica risponde a categorie epistemologiche estranee alla dimensione occidentale. Proprio nella consapevolezza di forze irrappresentabili, all’interno del canone espressivo tradizionale del proprio popolo, l’artista africano opera continuamente quelle variazioni che rigenerano il significato artistico ed estetico dei manufatti: la forza di queste immagini consiste nello scarto tra tradizione e creazione, in una sorta di ossimoro definibile in immanenza evolutiva o forse, nell’estasi immobile di einsteiniana memoria. ( Ex Africa. Storie ed identità di un’arte universale. 2019)
Grand Chief Mangbetu Okodongwe 1930, C. Zagouruski
La surlocalizzazione, invertendo le priorità esistenziali/individuali, ha valorizzato gli aspetti mistici del rapporto con le forze della natura riuscendo a generare un universo cosmologico ed un culto per gli antenati che hanno protetto l’etnia dalle insidie di un territorio in molti casi ostile e maligno.
Sul piano della creazione artistica, l’appartenenza ad un determinato ambito ha garantito l’originalità delle forme e della creazione plastica che infatti, appaiono anche all’occhio del profano notevolmente difformi, basti pensare a certe creazioni della Nigeria, della Costa d’Avorio o del Congo.
Non è possibile, pertanto utilizzare parametri di valutazione di stampo occidentale per comprendere l’arte di questi popoli, come peraltro restano incomprensibili il mondo invisibile e le ritualità legate a determinati eventi.
Ciò che può comporre, almeno in parte, lo iato tra le due culture non consiste nel rinunciare allo sguardo di uomini dell’occidente, impossibile peraltro, ma nello sforzo di elaborare il reciproco riconoscimento attraverso la creazione di uno statuto proprio dell’Arte tradizionale africana che sappia valorizzare i meriti e la geniale creatività di un’Arte certamente Universale.
Elio Revera
Shilluk Warrior of Sudan in full regalia, early 20th Cen, Photographer Unknown.