Premessa.
Alcuni anni fa, incuriosito dall’insolito titolo Sculptures Africaines. Fragments du Vivant della coll. Durant – Dessert, ho visitato alla Monnaie di Parigi un’inconsueta e spiazzante esposizione dedicata ai manufatti africani erosi dal tempo, feriti e mutilati dalle loro vicissitudini, sovente ridotti a simulacri dell’antica opera. Negli stessi giorni concludevo la lettura del romanzo Crash dello scrittore inglese J. G. Ballard, nel quale uomini e donne si auto-infliggono o infliggono ad altri, ferite e mutilazioni sul corpo, in nome di un aberrante codice etico ed estetico. Per capirci, un protagonista del romanzo afferma: «Per lui, ferite del genere erano le chiavi di una nuova sessualità, generata da una perversa tecnologia; e le loro immagini stavano appese nella sua galleria mentale come oggetti esposti in un museo da macello.»
Il corto circuito prodotto in me da questa fulgida antinomia fu potente quanto imprevisto: mi trovai di fronte allo stesso tempo, oggetti inanimati pieni di vita ed esseri viventi intrisi di morte.
Al banchetto dell’ineffabile, stavolta, Eros e Thánatos si son davvero scambiati di posto!!
Compresi in un illuminante insight che le cose potevano effettivamente coesistere e che una tale aporia era di fatto possibile.
Qui di seguito, nel merito, ho provato a fare alcune riflessioni che riguardano sì opere africane, ma che sottintendono un codice di energetica ermeneutica vale a dire, la potenza espressiva del frammento.
Guardo e mi osservano figure erose e scortecciate, un lungo sguardo muto che attraversa i millenni e lo spazio siderale di una cultura aliena, la mia, ma uniti da un destino comune, il nostro, quello di esseri umani.
Cosa mi dicono quelle forme arcaiche che già io non conosca? Mi parlano di un’origine remota, laddove coloro che prima le hanno immaginate e poi create, hanno convissuto con il dubbio ed il rimpianto.
Il dubbio, compagno di ogni artista creatore, di riuscire a trasferire in quelle forme l’afflato dell’anima ispiratrice ed il rimpianto, dopo la creazione, di un’occasione perduta, perché sempre, accanto alla creazione, è l’enigma di quel che poteva essere e non è stato, ad accompagnare le fragili certezze dell’autentico artista.
Osserviamo. Le sculture, due figure funebri Bongo del Sud-Sudan e Konso dell’Etiopia, hanno in comune un gesto atavico, ritmato da precise angolature che evidenziano la cogente assenza di incertezza e dubbio: quelle braccia trattenute sui fianchi per devozione, nella figura Bongo, è una soluzione euclidea che regola sia la geometria che la preghiera.
Un gesto di devozione pudico, affatto maestoso, un trattenere le braccia accostate, senza enfasi alcuna, perché nell’enfasi l’uomo assurge a semidio e devìa da un raccoglimento silente e devoto. Lo stesso significato per la figura Konso protesa in alto in una filiforme struttura crestata, come meritano gli eroi di quell’etnia.
Nondimeno, l’elemento simbolico è il medesimo ed il percorso interiore affatto dissimile perché la preghiera non necessita di contenitori privilegiati quando è sincera e nasce da un’autentica devozione.
Stilisticamente questa “stele” coniuga sul piano iconografico la perfetta sintesi culturale di una filosofia sospesa tra terra e cielo.
Questo, non altro, è il senso di un’estetica che rifugge il valore meramente plastico e si prefigge il rispetto di un canone sedimentato nei secoli, ma immanente, nell’attimo in cui è evocato dalla preghiera.
C’è in queste opere un’urgenza di svincolarsi dalla stessa iconografia che rappresentano, dalle stesse immagini che promanano.
L’elemento frontale unitamente a quello verticale sovrastano ogni immanenza percettiva: non pare necessario voler cogliere il profilo scultoreo o tantomeno l’elemento dinamico.
Tutto ciò contribuisce ad una solida percezione di eternità: qui ed ora, senza rimandi, tale è l’impeto che suggeriscono queste immagini. Perché l’hic et nunc, appare manifesto, audace, perentorio.
In questa scultura nigeriana dell’etnia Urhobo, l’aspetto monumentale lascia lo spettatore allibito ed attonito. La fissità della figura è premeditata. Niente deve ingiungere il distacco visuale dallo sguardo imperioso del personaggio principale e dalle teste dei nemici ai suoi piedi, riprodotti in scala dimensionale ed incorporati nella medesima statua; come se un pur minino distacco allontanasse una congiunzione prima emotiva che visiva, come se una parentesi di lontananza, potesse sfuggire al controllo ieratico e portentoso della figura.

La cifra stilistico/estetica pertanto, insieme alla monumentalità verticale, è quella dell’intensità del contatto emotivo, dell’impossibilità del distacco, della forza di concatenamento tra figura e spettatore. Una sensazione di legame ferrigno che intercorre tra i due poli osservatore/osservato che induce un’alchimia di appartenenza senza mediazione, né sottomissione alcuna, puro contatto stringente in un’unica ieratica aura. In ciò sta la forza di un’estetica delle rovine, come scrisse René de Chateaubriand, sia pure in un contesto molto diverso, un’estetica consunta, sbrecciata, arsa dal tempo e dalle vicissitudini, ma vieppiù dirompente, energica e catturante.

Allo stesso modo, la figura di questa scultura Kabye del nord del Togo stempera la supremazia della verticalità, ma non per questo sfugge alla celebrazione monumentale.
Anche in questo caso, il contatto è immediato e stringente, la dimensione dell’appartenenza emotiva è prorompente. Pare quasi che l’artista abbia voluto abolire ogni elemento decorativo, ogni orpello descrittivo o ludico, finalizzando l’energia complessiva nell’intensità catturante e misteriosa della postura trattenuta e dello sguardo sbirciante.
Un ulteriore elemento di esegesi critica alla decifrazione di quest’arte primordiale: la sobrietà, l’essenzialità e l’unitarietà espressiva.
Questa figura Igbo, anch’essa della Nigeria meridionale, apparentemente scabra, è in realtà simulacro simbolico che condensa l’essenza del suo fine, non edulcorato né ammansito da rumorosi quanto inutili decorazioni; la sua forza sta nella presenza compatta, essenziale, che propone, anzi impone, la medesima intensità di partecipazione a quanti intendano condividerne il sotteso messaggio e l’immateriale dono spirituale.
Immaginare di poter decifrare il valore estetico prescindendo da significato simbolico/religioso non pare un’operazione possibile per la statuaria dell’Africa antica.
Ogni scultura trasuda un’aurea mistica che la rende anzitutto oggetto di venerazione prima che di contemplazione; per questo è ben difficile estrapolarne il senso, anche quello artistico, prescindendo dal significato simbolico.
Più che per altre produzioni artistiche, a torto considerate per decenni “primitive”, questa statuaria vive di una stretta, intima correlazione, con la connotazione primigenia che l’ha generata: la celebrazione degli antenati e la preghiera a loro rivolta: più che rappresentare le divinità, sono l’effigie della volontà del contatto mistico/religioso
Un’arte, pertanto, che non celebra l’iconografia del divino, bensì postula l’intimo legame che conduce agli antenati mitici attraverso la preghiera e la ieratica concentrazione spirituale, in opposizione alla forze invisibili ed insidiose della natura.
E questo rende umanissime quelle opere e tanto più son prive di seduzioni estetizzanti, con più forza sono ricche di pathos meditativo.
La cultura occidentale fa fatica a coglierne l’essenza; forse l’iconografia di queste produzioni, scabra e macilenta in tanti casi, urta il sentimento di opulenza, eleganza e celebrazione che l’occidente esige da un’opera d’arte.
E tuttavia è proprio in tale spazio che dimora la cifra stilistica ed estetica di queste opere “tribali” : nel valore simbolico primigenio del rapporto col divino, un nesso perentorio e secolare.
Elio Revera