Estetica. Lucien Stephan, 1988.
Estetica 1. Deformazione e goffaggine.
Per molto tempo si è considerato che gli scultori africani deformassero il corpo umano e, più in generale, le cose che essi rappresentavano. “Deformazione” è un termine ambiguo: la parola designa un’operazione e il suo risultato. La deformazione-risultato è rimproverata all’opera, la deformazione-operazione all’artista: lo si accusa di goffaggine, di insufficienza tecnica, di trascuratezza, d’incapacità nell’imitazione o nella fedele rappresentazione del modello. Frequentemente questi rimproveri non sono indirizzati ai soli oggetti e artisti africani, ma a tutti gli oggetti realizzati secondo una concezione di arte diversa dal classicismo e dall’imitazione della natura. A volte, benché in pochi ormai attribuiscano al classicismo valore di universalità, queste critiche sfuggono ancora, per così dire, ad autori seri. La forma-risultato non è che una forma diversa rispetto a quella che ci si attendeva. Se ciò che ci si attendeva era una forma che riproducesse fedelmente il corpo umano, la constatazione di una diversità trasforma questa differenza in negazione. Lo stesso vale quando la forma presenta proporzioni differenti da quelle del corpo umano: la scultura viene allora definita sproporzionata o malamente proporzionata.
Risalendo dal risultato all’operazione, dall’opera all’artista, si collega la forma osservata a una scelta intenzionale dello scultore: egli avrebbe voluto imitare fedelmente la natura e non c’è riuscito, per carenze tecniche, mancanza di capacità o di abilità, trascuratezza. Ma l’imputare allo scultore un’intenzione imitativa non ha alcuna base empirica, non è legittimata da alcuna informazione etnografica; anteriore all’incontro con l’oggetto, essa viene anticipata poiché siamo indotti a giudicare questa intenzione confrontandola con quella dello scultore europeo classico o accademico. Il duplice giudizio negativo, deformazione e goffaggine, unifica cosi i due aspetti del disconoscimento descritti in precedenza. Come e con cosa sostituire queste anticipazioni etnocentriche? E’ necessario in primo luogo osservare attentamente l’opera.
Il primo effetto dell’osservazione è quello di individuare ciò che possiamo definire provvisoriamente deformazione, con l’intento di correggerlo e sostituirlo con quello di deformazioni coerenti. Si passa così da un confronto tra le forme della scultura e quelle del corpo umano a un raffronto tra le forme delle parti che costituiscono la scultura. Se ne trae sovente il senso di una somiglianza mentre i rispettivi modelli dovrebbero renderle dissimili. Tutto si svolge come se un’unica regola di deformazione, o meglio, di trasformazione fosse applicata dallo scultore alla resa delle parti del supposto modello. Questa regola, unica per un’opera, varia per opere differenti. Le trasformazioni coerenti della realtà extrartistica sono in numero pari agli stili. La coerenza delle deformazioni è un sintomo o una manifestazione di stile. Si è così passati dalla rappresentazione (imitativa) delle forme (extrartistiche) alla forma (artistica) della rappresentazione.
Così alcune maschere o alcuni visi scolpiti presso i Bamileke riproducono tutte le parti del viso umano per mezzo di linee nette dalla forma di segmenti di curve, di curvature e di dimensioni assai simili. L’acconciatura Wurkun suggerisce le medesime osservazioni. Alcune maschere Dogon presentano dei segmenti di destra disposti ad angolo retto, in modo che forme parziali rettangolari rappresentino parti di un viso nel contempo non rettangolari e dissimili. Nell’oggetto Baga chiamato “nimba” riprodotto di profilo si possono rilevare le curvature simili e orientate diversamente della cresta, della linea del naso e degli incavi che poggiano sulle spalle di chi lo porta. Il profilo di un copricapo tchiwara di origine Bamana presenta una variazione nella curvatura degli assi di tutti i suoi elementi plastici aventi valori figurativi diversi. Si potrebbero agevolmente moltiplicare gli esempi.
Per descrivere le somiglianze tra forme parziali aventi valori rappresentativi diversi, si può chiedere in prestito a D.H. Kahnweiler il concetto di rima plastica. Questa metafora è giustificata da un’analogia. Forme sonore identiche (rime verbali) vengono associate a significati e referenti diversi così come forme visibili identiche o simili (rime plastiche) sono associate a valori rappresentativi diversi. Una statuetta Baulé conferisce al viso, a entrambi i seni, ai contorni costituiti dalle scarificazioni sopra ogni seno e prolungati all’interno delle braccia, e infine agli assi delle gambe che proseguono attraverso quelli dei piedi convergenti, una forma a cuore allungato facilmente percettibile sotto questi diversi valori di rappresentazione. Le prenozioni, o anticipazioni iniziali, non sono perlopiù dei concetti isolati, ma appartengono a costellazioni concettuali più o meno sistematiche (come nozione di feticcio, di idolo e di idolatria).

Kuba. Statua di antenato, 1911.
Estetica 2. Imperfezione e perfezione.
Tutto ciò che è stato ferocemente criticato, tutti i difetti che si sono potuti attribuire agli oggetti africani costituivano altrettante imperfezioni. Nell’estetica classica bellezza e perfezione sono legate indissolubilmente. Le imperfezioni attribuite all’arte africana rischiano dunque di non essere altro che la formulazione in chiave negativa della diversità fra le opere africane e le caratteristiche della bellezza classica. In cosa consiste esattamente questa perfezione attesa e non riscontrata?
La nozione di perfezione viene elaborata da Aristotele nell’ambito di una filosofia della “technè” senza una differenziazione tra ciò che noi distinguiamo con le due parole “arte” e “tecnica”. Come pure per Kant, il giudizio di perfezione non è un giudizio di gusto, la perfezione non è un valore estetico, ma tecnico. La produzione artistica si divide in due fasi, concezione ed esecuzione. Il bravo tecnico concepisce chiaramente e completamente il suo prodotto, prima di cominciare ad eseguirlo. Se la concezione o il progetto è un’idea, l’esecuzione è fare e la perfezione il risultato di una rifinitura; poiché l’esecuzione, il fare, è perfetto, compiuto, quando il prodotto eseguito è conforme alla concezione, progetto o intenzione dell’autore, se questi interrompe l’esecuzione prima di questo termine o di questo fine, il suo prodotto, ancora inadeguato al progetto, è imperfetto, incompiuto.
Dalla caratteristica tecnica della perfezione così definita risultano i limiti dell’applicazione corretta del suo concetto e del suo utilizzo come criterio. Gli oggetti che dipendono da forme o specie di produzione diverse dalla produzione tecnica non dovrebbero dipendere dal criterio di perfezione. A queste categorie appartengono tutti i prodotti nei quali il progetto non è stato compiutamente pensato prima dell’esecuzione. Ma non solo questo. Anche la creazione artistica nella precisa misura in cui, a differenza degli antichi e del Medioevo, noi la distinguiamo dalla produzione tecnica. Delacroix parla di esecuzione creatrice; per Braque “l’idea è la culla del quadro”. Ne risulta che il criterio di perfezione non può essere applicato alle arti africane se non dopo averne determinati i modi di produzione e, in particolare, lo statuto del progetto o la natura dell’intenzione dell’artista in questo processo di produzione.
E questo presuppone indagini etnografiche accuratamente orientate. Ma non c’è alcuna ragione di supporre che tutti gli artisti africani producano nello stesso modo. Per giunta, la distinzione tra arte e tecnica, come già mostravano la “technè” greca e l’”ars latina” non è applicabile a tutti i periodi della storia dell’arte. In certe epoche e in certi luoghi, la perfezione tecnica è inseparabile dalla qualità estetica. Il rifiuto di considerare la perfezione, in quanto tecnica, come valore estetico deriva dalla concezione di un’arte pura, purificata dai suoi elementi tecnici. Ora non c’è alcun motivo per supporre a priori l’esistenza di un’arte pura in Africa; al contrario, noi riconosciamo lo statuto di opera d’arte a degli oggetti africani funzionali e la cui funzione, in particolare, è tecnica. Il giudizio di perfezione, “strícto sensu”, presuppone la conoscenza preliminare del progetto o dell’intenzione dell’artista. Abbiamo visto, trattando della deformazione, le condizioni alle quali è così sottomessa la nostra valutazione delle opere africane. Riprendiamo queste osservazioni nell’esame di un’altra forma di imperfezione, il non-finito.

Kongo. Feticci e oggetti di potere, 1900-1905.
Estetica 3. Il non-finito.
Quando il finito è concepito come una perfezione e il non-finito come un’imperfezione, l’uno e l’altro concetto si integrano alla concezione generale di arte elaborata dai Greci. Ma se ci imbattiamo in opere alle quali questa concezione di arte è inapplicabile, senza che la loro caratteristica di non-finito ci impedisca assolutamente di apprezzarle, come giustificare questo apprezzamento in alternativa alla svalutazione di matrice classica? Due sono le vie percorribili: il ricorso ai dati etnografici e l’enumerazione delle teorie dell’arte che giustificano il non-finito.
Queste ultime soluzioni non possono che fungere da anticipazioni della sostituzione che andrebbe confrontata con i dati etnografici. Nella teoria classica dell’arte, la finitura o rifinitura è la tappa finale dell’esecuzione. Finire è, secondo Robert, “condurre al suo punto di perfezione”, “dare l’ultimo tocco a…”. È la condizione, cronologicamente ultima, del perfezionare. Questo, secondo Paul Valéry, consiste nel far “sparire tutto ciò che mostra o suggerisce la fabbricazione di un’opera”; l’artista deve “proseguire il suo sforzo finché il lavoro non abbia cancellato le tracce del lavoro” (Degas, Dame, Dessín). Così come la natura del lavoro varia a seconda dei materiali e degli utensili, le operazioni di finitura variano con le arti.
Ma un aspetto del finito sembra comune a tutte le tecniche: le tracce del lavoro sono cancellate quando la superficie dell’opera è regolare, uguale, liscia, levigata, “leccata”, o quando presenta proprietà visive o tattili che si avvicinano il più possibile a tali qualità. In alcuni casi, lo scultore africano utilizza come abrasivo delle foglie particolarmente ruvide atte a levigare la superficie intagliata; è il caso, ad esempio, delle maschere Dan chiamate appunto “classiche”. In altri casi, lo scultore non utilizza questi abrasivi, ma rifinisce la sua opera con il coltello intagliando molto delicatamente e molto regolarmente delle sfaccettature che stanno a una superficie liscia e continua come un poligono regolare di infiniti lati sta al cerchio in cui è inscritto. Benché una simile superficie non sia perfettamente liscia, bisogna ammettere che essa è finita e perfetta per il fatto che l’artista ha manifestamente realizzato ciò che aveva intenzione di eseguire.
La teoria classica concepisce l’arte come tecnica di imitazione della natura. La tecnica rientra nella relazione tra l’opera e l’artista, l’imitazione nella relazione tra l’opera e il suo modello naturale. Da questi due punti di vista, le tracce del lavoro devono essere cancellate. Il modello naturale non presenta alcuna traccia di un lavoro umano che evidentemente non l’ha prodotto; questa traccia dunque deve essere cancellata dall’opera affinché essa risulti fedele al proprio modello. L’imitazione tende a interrompere la relazione dell’opera con l’artista a vantaggio della relazione della stessa con il modello. In secondo luogo, per tutta la durata della sua produzione, l’opera dipende ancora dall’artista; è solo quando è compiuta, rifinita, che l’opera diviene indipendente. Ora, i Greci attribuiscono un valore maggiore all’opera che alla sua produzione e in maniera generale a una sostanza che alla sua genesi. Ma, nella misura in cui l’arte africana non dipende da questa concezione naturalista dell’arte, questa giustificazione del finito non è pertinente.
L’osservazione e il confronto di alcune opere africane, unite a dei dati etnografici, permette di scartare la giustificazione naturalista del finito e di fornire, in alternativa, almeno due spiegazioni positive del non-finito. Il non-finito di alcune opere provenienti da diverse regioni dell’Africa può essere considerato parziale. In una stessa scultura, alcune parti sono finite e altre no. Questo aspetto basta da solo a eliminare una definizione di goffaggine, poiché uno stesso artista avrebbe dovuto essere valente per rifinire alcune parti e maldestro per non finirne altre.
Si impone un’altra spiegazione. Più in generale, si può notare che assai spesso in Africa le diverse parti di una stessa figura sono trattate diversamente. Queste differenze possono caratterizzare lo stile -alcune parti sono talvolta trattate in maniera naturalista e altre in maniera astratta o schematica- le proporzioni, l’uso o no del colore. Nelle sculture globalmente a tutto tondo, alcune parti sono trattate in rilievo, come le membra superiori di alcune figure Baulé o le membra inferiori di alcune cariatidi Luba o Hemba in rilievo sulla base degli sgabelli. Quanto al finito parziale, M.L. Bastin, commentando una statuetta Ovimbundu nota che “le mani e i piedi sono abbozzati sommariamente. Solo la testa e il tronco hanno beneficato delle cure dello scultore”.
Quest’ultima osservazione suggerisce un trattamento gerarchico delle parti della figura. Una relazione di accordo o di convenienza è stabilita tra i gradi di finitura delle parti della scultura e le corrispondenti parti del personaggio rappresentato, ordinate secondo una gerarchia di valori socialmente riconosciuta. Il non-finito parziale, o meglio, differenziato, sarebbe così spiegato dalla sottomissione della rappresentazione a una gerarchia extrartistica e da una applicazione del principio -basato sul funzionalismo- di convenienza. E’ ancora nell’ambito di una concezione funzionalista dell’arte che un certo tipo di utilizzo, generalmente definito magico, giustifica un finito parziale. Le più conosciute tra queste statue magiche sono di origine Kongo, Teke, Luba e Songye. Esse ricevono il loro potere magico dall’aggiunta, al pezzo scolpito, di materiali diversi, scelti, preparati e inseriti da uno specialista in pratiche magiche. Il pezzo scolpito è, in se stesso, privo di efficacia o di potere. Lo stesso oggetto presenta dunque due stati e aspetti successivi, di cui solo il secondo è adatto all’uso.
La loro differenza è espressa talvolta dal fatto che chi lo utilizza dà due nomi diversi all’oggetto. Presso i Teke, Hottot, ha raccolto per la prima volta nel 1906 informazioni di questo tipo. Ora, lo scultore conosce l’uso del pezzo che ha intagliato; egli sa che alcune parti verranno nascoste dai materiali magici che le ricopriranno. Egli può dunque non solo astenersi, ma essere dispensato dal terminarle. Saranno i fruitori stessi, conformemente alle esigenze dell’uso rituale a permettergli ciò. Non si può quindi accusarlo né di goffaggine e neppure di trascuratezza. Tuttavia questa differenza di finitura tra le parti può essere attenuata o cancellata. Anche il secondo esecutore può portare a termine accuratamente le parti che egli aggiunge. Z. Volavkova nello studio delle figure nkhisi del Basso Congo nota che talvolta lo scultore tiene conto dei futuri accessori della statuetta, e che il nganga, viceversa, può adattare i suoi materiali alla forma scolpita cogliendone i suggerimenti.
Il finito parziale è facilmente osservabile sui pezzi usciti dalle mani dello scultore o all’inizio del loro uso (come i feticci Kongo nei quali sono stati piantati solo alcuni chiodi o lamelle di metallo), o infine sui pezzi privati dei materiali magici che li ricoprivano. Questa spiegazione dell’uso non è specifica né rigorosa. Non è specifica poiché essa è applicabile a oggetti non africani, a usi diversi da quelli magici e ad altre arti oltre alla scultura. Non e rigorosa poiché, in alcuni casi, le parti destinate a rimanere invisibili sono rifinite come le altre. Vanno ancora spiegati i pezzi non finiti interamente. Lo “stile di abbozzo” non basta a conferire loro la qualità estetica. La storia delle teorie dell’arte mette a nostra disposizione numerose possibilità di giustificare il nostro apprezzamento: quella alla quale si ricorre con maggior frequenza ritiene queste opere espressioniste. Ma una cosa è interpretare il non-finito o lo stile di abbozzo in termini di espressione, altro è sapere, sulla base di informazioni etnografiche, se i fruitori di tali opere le apprezzino in questo modo e se dispongano di termini correttamente traducibili mediante il nostro vocabolario espressionista. Poiché abbiamo la tendenza ad attribuire l’espressione che ci aspettiamo a oggetti inespressivi, come a quella parte di scheletro così descritta da Paul Valéry: “Questo cranio vuoto e questo riso eterno”, ci troviamo di fronte a una questione di estetica comparata.

Yombé. Feticci “nkisi nkonde”, 1911.
Estetica 4. La rappresentazione del movimento.
E’ stato detto che, nella loro maggioranza, le sculture africane non rappresentavano il movimento dei personaggi riprodotti; che, nei rari casi in cui lo tentavano, non raggiungevano lo scopo o lo raggiungevano malamente. Se ne deduceva che la maggior parte degli scultori africani sono incapaci di rappresentare il movimento. Queste critiche non sono specifiche, sono dirette a tutte le arti dette «primitive» o arcaiche. Anche qui, il giudizio che svilisce le opere e quello che denigra lo scultore devono essere disgiunti. Il primo riguarda gli oggetti osservabili, il secondo verte sulle intenzioni e le capacità e non basta formularlo solo in base all’osservazione senza controllo etnografico.
Nella maggioranza dei casi, il primo giudizio negativo sembra legittimo. Le statue africane non rappresentano il movimento perché la funzione che esse rivestono richiede l’immobilità sacra -lo ieratismo- dei personaggi che rappresentano o che personificano. In una minoranza di casi si riconosce senza difficoltà la rappresentazione del movimento. Gli esempi migliori sono forniti dai pesi per la polvere d’oro utilizzati nel gruppo Akan e dalle statue provenienti dalle chefferies (Bamileke, Bamum, ecc.) delle savane del Camerun. Esistono, ci sembra, casi intermedi che portano a chiedersi se un giudizio negativo non risulterebbe, ancora una volta, dalla trasformazione di una differenza in negazione.
In tre casi lo scultore africano può rappresentare un movimento differente da quelli che noi siamo in grado di anticipare e di attenderci. Il movimento rappresentato può essere diverso dai movimenti che siamo soliti incontrare nella realtà extrartistica costituita dal nostro ambito culturale. Può essere diverso da quelli che abbiamo visto rappresentati nella realtà artistica che conosciamo. La sua differenza può infine essere costituita dal fatto che esso è rappresentato in un modo diverso da quello al quale siamo abituati. I primi due casi riguardano il movimento come oggetto, soggetto o materia della rappresentazione; il terzo, la forma della rappresentazione e le convenzioni figurative del movimento.
Danze, cerimonie e rituali africani comprendono movimenti che noi non conosciamo, ma che lo scultore africano può rappresentare. Le danze africane sono così diverse dalle nostre che noi non possiamo assimilarle; sono diverse anche dall’idea che noi possiamo farcene. Riesce così difficile evitare un giudizio negativo, mentre il ricercatore che le avrà viste potrà riconoscerle nella rappresentazione scolpita. Non possiamo neppure affidarci all’impressione di staticità che suscita la visione di una scultura isolata, poiché le nostre impressioni subiscono anch’esse l’intervento delle anticipazioni e il loro ambito di pertinenza, come quello delle nostre prenozioni, ne viene ridotto. Da una scultura isolata che ci pare statica, non possiamo dedurre che essa non rappresenta alcun movimento. Così, la frontalità e la simmetria di alcune statuette mossi suggeriscono a prima vista l’impressione di staticità, ma, come riferisce M.L. Bastin, A. Schweeger-Hefel ha mostrato delle “fotografie di donne che danzano, le braccia leggermente scostate dal corpo, suggerendo come questa coreografia, discreta ed elegante, abbia potuto ispirare la struttura del corpo dei personaggi femminili” scolpiti.
J.L. Paudrat (1974), in un capitolo intitolato «La foresta danza» ha mostrato come, nella “visione coloniale”, alle danze africane siano associati la frenesia del movimento, la licenziosità dei costumi d’eccesso sessuale. L’esempio mossi dimostra che le danze africane non possono essere circoscritto a gesticolazioni frenetiche che quindi non ci si deve attendere sistematicamente. Mostra anche che la maniera di rappresentare il movimento non è forzatamente imitativa; il movimento della danza può, più sottilmente, “ispirare la struttura” dell’immagine. La fotografia, il cinema e la televisione possono ovviare a questa ignoranza. Ma la documentazione fotografica ha dei limiti, poiché anch’essa si fonda su convenzioni figurative. “Gli uomini hanno l’abitudine, ogni volta che scoprono una rassomiglianza tra due cose, di attribuire all’una e all’altra, perfino in ciò che le distingue, quello che essi hanno riconosciuto autentico dell’una e dell’altra”. Anche se una fotografia e una scultura sono, entrambe, rappresentazioni immobili del movimento, non ne deriva che esse lo riproducano nello stesso modo, mediante convenzioni figurative identiche. Non si può dunque assimilare la rappresentazione scultorea del movimento all’istantanea fotografica.
La famosa analisi di Rodin(1967, pp.46-47)del “Maréchal Ney” di Rude, basta a dimostrarlo e contiene delle anticipazioni più sottili. Secondo Rodin, Rude ha formulato due osservazioni istantanee ma parziali, omogenee in quanto convenzioni figurative, ma diverse nel loro oggetto: due parti diverse del corpo in due momenti diversi (successivi) del movimento. L’analisi del modo di rappresentazione del movimento distingue cosi due livelli, quello delle parti e quello del tutto. Ora, come abbiamo detto, lo scultore africano può trattare diversamente le parti di una stessa scultura, ciò che permetterebbe di applicare la procedura di analisi di Rodin. Una scultura africana può riunire le rappresentazioni di una parte mobile e di una parte immobile. Alcune statuette teke rappresentano un corpo immobile e delle gambe flessibili che, secondo Hottot riproducono il movimento delle gambe nella danza degli uomini chiamata “nkíbi”.
Tale convenzione figurativa, che associa la rappresentazione di una parte immobile a quella di una parte mobile, può essere ispirata dalle danze stesse. In certe danze africane, alcune parti del corpo possono restare quasi immobili, dato che la vibrazione delle gambe viene associata all’immobilità del tronco o, inversamente, gambe per così dire bloccate possono reggere una specie di vibrazione del tronco e dei seni. Queste brevi osservazioni hanno lo scopo di suggerire quale sia il livello di complessità della questione.

Sango. Reliquiari, 1907-1908.

Ekpeya. Tamburo “ogbukere”, 1930/1939.

Ibibio. Maschera “ekpo”, 1930/1939.

Igbo. Statua “ikenga nimo”, 1930/1939.

Ika. Altare, 1930/1939.

Ikwerri. Maschera “asaba”, 1930/1939.

Wé. Maschera, 1934.

Yombé. Feticcio “nkisi nkonde”, 1906.

Bena Mitumbo. Maschera “katotoshi”, 1930.

Luvale. Maschera “mupala”, 1889.

Senufo. Maschera “gbon”, 1920.

Bamileke. Maschere “mbap mteng”, 1930.



















































































































