+La forma selvaggia, parte quarta. Prosegue la ricerca d Giorgio Ruscani che in questa parte esamina gli aspetti estetici con il contributo di L. Stephan.

Estetica. Lucien Stephan, 1988.


Estetica 1. Deformazione e goffaggine.
Per molto tempo si è considerato che gli scultori africani deformassero il corpo umano e, più in generale, le cose che essi rappresentavano. “Deformazione” è un termine ambiguo: la parola designa un’operazione e il suo risultato. La deformazione-risultato è rimproverata all’opera, la deformazione-operazione all’artista: lo si accusa di goffaggine, di insufficienza tecnica, di trascuratezza, d’incapacità nell’imitazione o nella fedele rappresentazione del modello. Frequentemente questi rimproveri non sono indirizzati ai soli oggetti e artisti africani, ma a tutti gli oggetti realizzati secondo una concezione di arte diversa dal classicismo e dall’imitazione della natura. A volte, benché in pochi ormai attribuiscano al classicismo valore di universalità, queste critiche sfuggono ancora, per così dire, ad autori seri. La forma-risultato non è che una forma diversa rispetto a quella che ci si attendeva. Se ciò che ci si attendeva era una forma che riproducesse fedelmente il corpo umano, la constatazione di una diversità trasforma questa differenza in negazione. Lo stesso vale quando la forma presenta proporzioni differenti da quelle del corpo umano: la scultura viene allora definita sproporzionata o malamente proporzionata.
Risalendo dal risultato all’operazione, dall’opera all’artista, si collega la forma osservata a una scelta intenzionale dello scultore: egli avrebbe voluto imitare fedelmente la natura e non c’è riuscito, per carenze tecniche, mancanza di capacità o di abilità, trascuratezza. Ma l’imputare allo scultore un’intenzione imitativa non ha alcuna base empirica, non è legittimata da alcuna informazione etnografica; anteriore all’incontro con l’oggetto, essa viene anticipata poiché siamo indotti a giudicare questa intenzione confrontandola con quella dello scultore europeo classico o accademico. Il duplice giudizio negativo, deformazione e goffaggine, unifica cosi i due aspetti del disconoscimento descritti in precedenza. Come e con cosa sostituire queste anticipazioni etnocentriche? E’ necessario in primo luogo osservare attentamente l’opera.
Il primo effetto dell’osservazione è quello di individuare ciò che possiamo definire provvisoriamente deformazione, con l’intento di correggerlo e sostituirlo con quello di deformazioni coerenti. Si passa così da un confronto tra le forme della scultura e quelle del corpo umano a un raffronto tra le forme delle parti che costituiscono la scultura. Se ne trae sovente il senso di una somiglianza mentre i rispettivi modelli dovrebbero renderle dissimili. Tutto si svolge come se un’unica regola di deformazione, o meglio, di trasformazione fosse applicata dallo scultore alla resa delle parti del supposto modello. Questa regola, unica per un’opera, varia per opere differenti. Le trasformazioni coerenti della realtà extrartistica sono in numero pari agli stili. La coerenza delle deformazioni è un sintomo o una manifestazione di stile. Si è così passati dalla rappresentazione (imitativa) delle forme (extrartistiche) alla forma (artistica) della rappresentazione.
Così alcune maschere o alcuni visi scolpiti presso i Bamileke riproducono tutte le parti del viso umano per mezzo di linee nette dalla forma di segmenti di curve, di curvature e di dimensioni assai simili. L’acconciatura Wurkun suggerisce le medesime osservazioni. Alcune maschere Dogon presentano dei segmenti di destra disposti ad angolo retto, in modo che forme parziali rettangolari rappresentino parti di un viso nel contempo non rettangolari e dissimili. Nell’oggetto Baga chiamato “nimba” riprodotto di profilo si possono rilevare le curvature simili e orientate diversamente della cresta, della linea del naso e degli incavi che poggiano sulle spalle di chi lo porta. Il profilo di un copricapo tchiwara di origine Bamana presenta una variazione nella curvatura degli assi di tutti i suoi elementi plastici aventi valori figurativi diversi. Si potrebbero agevolmente moltiplicare gli esempi.
Per descrivere le somiglianze tra forme parziali aventi valori rappresentativi diversi, si può chiedere in prestito a D.H. Kahnweiler il concetto di rima plastica. Questa metafora è giustificata da un’analogia. Forme sonore identiche (rime verbali) vengono associate a significati e referenti diversi così come forme visibili identiche o simili (rime plastiche) sono associate a valori rappresentativi diversi. Una statuetta Baulé conferisce al viso, a entrambi i seni, ai contorni costituiti dalle scarificazioni sopra ogni seno e prolungati all’interno delle braccia, e infine agli assi delle gambe che proseguono attraverso quelli dei piedi convergenti, una forma a cuore allungato facilmente percettibile sotto questi diversi valori di rappresentazione. Le prenozioni, o anticipazioni iniziali, non sono perlopiù dei concetti isolati, ma appartengono a costellazioni concettuali più o meno sistematiche (come nozione di feticcio, di idolo e di idolatria).

Kuba. Statua di antenato, 1911.

Estetica 2. Imperfezione e perfezione.
Tutto ciò che è stato ferocemente criticato, tutti i difetti che si sono potuti attribuire agli oggetti africani costituivano altrettante imperfezioni. Nell’estetica classica bellezza e perfezione sono legate indissolubilmente. Le imperfezioni attribuite all’arte africana rischiano dunque di non essere altro che la formulazione in chiave negativa della diversità fra le opere africane e le caratteristiche della bellezza classica. In cosa consiste esattamente questa perfezione attesa e non riscontrata?
La nozione di perfezione viene elaborata da Aristotele nell’ambito di una filosofia della “technè” senza una differenziazione tra ciò che noi distinguiamo con le due parole “arte” e “tecnica”. Come pure per Kant, il giudizio di perfezione non è un giudizio di gusto, la perfezione non è un valore estetico, ma tecnico. La produzione artistica si divide in due fasi, concezione ed esecuzione. Il bravo tecnico concepisce chiaramente e completamente il suo prodotto, prima di cominciare ad eseguirlo. Se la concezione o il progetto è un’idea, l’esecuzione è fare e la perfezione il risultato di una rifinitura; poiché l’esecuzione, il fare, è perfetto, compiuto, quando il prodotto eseguito è conforme alla concezione, progetto o intenzione dell’autore, se questi interrompe l’esecuzione prima di questo termine o di questo fine, il suo prodotto, ancora inadeguato al progetto, è imperfetto, incompiuto.
Dalla caratteristica tecnica della perfezione così definita risultano i limiti dell’applicazione corretta del suo concetto e del suo utilizzo come criterio. Gli oggetti che dipendono da forme o specie di produzione diverse dalla produzione tecnica non dovrebbero dipendere dal criterio di perfezione. A queste categorie appartengono tutti i prodotti nei quali il progetto non è stato compiutamente pensato prima dell’esecuzione. Ma non solo questo. Anche la creazione artistica nella precisa misura in cui, a differenza degli antichi e del Medioevo, noi la distinguiamo dalla produzione tecnica. Delacroix parla di esecuzione creatrice; per Braque “l’idea è la culla del quadro”. Ne risulta che il criterio di perfezione non può essere applicato alle arti africane se non dopo averne determinati i modi di produzione e, in particolare, lo statuto del progetto o la natura dell’intenzione dell’artista in questo processo di produzione.
E questo presuppone indagini etnografiche accuratamente orientate. Ma non c’è alcuna ragione di supporre che tutti gli artisti africani producano nello stesso modo. Per giunta, la distinzione tra arte e tecnica, come già mostravano la “technè” greca e l’”ars latina” non è applicabile a tutti i periodi della storia dell’arte. In certe epoche e in certi luoghi, la perfezione tecnica è inseparabile dalla qualità estetica. Il rifiuto di considerare la perfezione, in quanto tecnica, come valore estetico deriva dalla concezione di un’arte pura, purificata dai suoi elementi tecnici. Ora non c’è alcun motivo per supporre a priori l’esistenza di un’arte pura in Africa; al contrario, noi riconosciamo lo statuto di opera d’arte a degli oggetti africani funzionali e la cui funzione, in particolare, è tecnica. Il giudizio di perfezione, “strícto sensu”, presuppone la conoscenza preliminare del progetto o dell’intenzione dell’artista. Abbiamo visto, trattando della deformazione, le condizioni alle quali è così sottomessa la nostra valutazione delle opere africane. Riprendiamo queste osservazioni nell’esame di un’altra forma di imperfezione, il non-finito. 

Kongo. Feticci e oggetti di potere, 1900-1905.

Estetica 3. Il non-finito.
Quando il finito è concepito come una perfezione e il non-finito come un’imperfezione, l’uno e l’altro concetto si integrano alla concezione generale di arte elaborata dai Greci. Ma se ci imbattiamo in opere alle quali questa concezione di arte è inapplicabile, senza che la loro caratteristica di non-finito ci impedisca assolutamente di apprezzarle, come giustificare questo apprezzamento in alternativa alla svalutazione di matrice classica? Due sono le vie percorribili: il ricorso ai dati etnografici e l’enumerazione delle teorie dell’arte che giustificano il non-finito.
Queste ultime soluzioni non possono che fungere da anticipazioni della sostituzione che andrebbe confrontata con i dati etnografici. Nella teoria classica dell’arte, la finitura o rifinitura è la tappa finale dell’esecuzione. Finire è, secondo Robert, “condurre al suo punto di perfezione”, “dare l’ultimo tocco a…”. È la condizione, cronologicamente ultima, del perfezionare. Questo, secondo Paul Valéry, consiste nel far “sparire tutto ciò che mostra o suggerisce la fabbricazione di un’opera”; l’artista deve “proseguire il suo sforzo finché il lavoro non abbia cancellato le tracce del lavoro” (Degas, Dame, Dessín). Così come la natura del lavoro varia a seconda dei materiali e degli utensili, le operazioni di finitura variano con le arti.
Ma un aspetto del finito sembra comune a tutte le tecniche: le tracce del lavoro sono cancellate quando la superficie dell’opera è regolare, uguale, liscia, levigata, “leccata”, o quando presenta proprietà visive o tattili che si avvicinano il più possibile a tali qualità. In alcuni casi, lo scultore africano utilizza come abrasivo delle foglie particolarmente ruvide atte a levigare la superficie intagliata; è il caso, ad esempio, delle maschere Dan chiamate appunto “classiche”. In altri casi, lo scultore non utilizza questi abrasivi, ma rifinisce la sua opera con il coltello intagliando molto delicatamente e molto regolarmente delle sfaccettature che stanno a una superficie liscia e continua come un poligono regolare di infiniti lati sta al cerchio in cui è inscritto. Benché una simile superficie non sia perfettamente liscia, bisogna ammettere che essa è finita e perfetta per il fatto che l’artista ha manifestamente realizzato ciò che aveva intenzione di eseguire.
La teoria classica concepisce l’arte come tecnica di imitazione della natura. La tecnica rientra nella relazione tra l’opera e l’artista, l’imitazione nella relazione tra l’opera e il suo modello naturale. Da questi due punti di vista, le tracce del lavoro devono essere cancellate. Il modello naturale non presenta alcuna traccia di un lavoro umano che evidentemente non l’ha prodotto; questa traccia dunque deve essere cancellata dall’opera affinché essa risulti fedele al proprio modello. L’imitazione tende a interrompere la relazione dell’opera con l’artista a vantaggio della relazione della stessa con il modello. In secondo luogo, per tutta la durata della sua produzione, l’opera dipende ancora dall’artista; è solo quando è compiuta, rifinita, che l’opera diviene indipendente. Ora, i Greci attribuiscono un valore maggiore all’opera che alla sua produzione e in maniera generale a una sostanza che alla sua genesi. Ma, nella misura in cui l’arte africana non dipende da questa concezione naturalista dell’arte, questa giustificazione del finito non è pertinente.
L’osservazione e il confronto di alcune opere africane, unite a dei dati etnografici, permette di scartare la giustificazione naturalista del finito e di fornire, in alternativa, almeno due spiegazioni positive del non-finito. Il non-finito di alcune opere provenienti da diverse regioni dell’Africa può essere considerato parziale. In una stessa scultura, alcune parti sono finite e altre no. Questo aspetto basta da solo a eliminare una definizione di goffaggine, poiché uno stesso artista avrebbe dovuto essere valente per rifinire alcune parti e maldestro per non finirne altre.
Si impone un’altra spiegazione. Più in generale, si può notare che assai spesso in Africa le diverse parti di una stessa figura sono trattate diversamente. Queste differenze possono caratterizzare lo stile -alcune parti sono talvolta trattate in maniera naturalista e altre in maniera astratta o schematica- le proporzioni, l’uso o no del colore. Nelle sculture globalmente a tutto tondo, alcune parti sono trattate in rilievo, come le membra superiori di alcune figure Baulé o le membra inferiori di alcune cariatidi Luba o Hemba in rilievo sulla base degli sgabelli. Quanto al finito parziale, M.L. Bastin, commentando una statuetta Ovimbundu nota che “le mani e i piedi sono abbozzati sommariamente. Solo la testa e il tronco hanno beneficato delle cure dello scultore”.
Quest’ultima osservazione suggerisce un trattamento gerarchico delle parti della figura. Una relazione di accordo o di convenienza è stabilita tra i gradi di finitura delle parti della scultura e le corrispondenti parti del personaggio rappresentato, ordinate secondo una gerarchia di valori socialmente riconosciuta. Il non-finito parziale, o meglio, differenziato, sarebbe così spiegato dalla sottomissione della rappresentazione a una gerarchia extrartistica e da una applicazione del principio -basato sul funzionalismo- di convenienza. E’ ancora nell’ambito di una concezione funzionalista dell’arte che un certo tipo di utilizzo, generalmente definito magico, giustifica un finito parziale. Le più conosciute tra queste statue magiche sono di origine Kongo, Teke, Luba e Songye. Esse ricevono il loro potere magico dall’aggiunta, al pezzo scolpito, di materiali diversi, scelti, preparati e inseriti da uno specialista in pratiche magiche. Il pezzo scolpito è, in se stesso, privo di efficacia o di potere. Lo stesso oggetto presenta dunque due stati e aspetti successivi, di cui solo il secondo è adatto all’uso.
La loro differenza è espressa talvolta dal fatto che chi lo utilizza dà due nomi diversi all’oggetto. Presso i Teke, Hottot, ha raccolto per la prima volta nel 1906 informazioni di questo tipo. Ora, lo scultore conosce l’uso del pezzo che ha intagliato; egli sa che alcune parti verranno nascoste dai materiali magici che le ricopriranno. Egli può dunque non solo astenersi, ma essere dispensato dal terminarle. Saranno i fruitori stessi, conformemente alle esigenze dell’uso rituale a permettergli ciò. Non si può quindi accusarlo né di goffaggine e neppure di trascuratezza. Tuttavia questa differenza di finitura tra le parti può essere attenuata o cancellata. Anche il secondo esecutore può portare a termine accuratamente le parti che egli aggiunge. Z. Volavkova nello studio delle figure nkhisi del Basso Congo nota che talvolta lo scultore tiene conto dei futuri accessori della statuetta, e che il nganga, viceversa, può adattare i suoi materiali alla forma scolpita cogliendone i suggerimenti.
Il finito parziale è facilmente osservabile sui pezzi usciti dalle mani dello scultore o all’inizio del loro uso (come i feticci Kongo nei quali sono stati piantati solo alcuni chiodi o lamelle di metallo), o infine sui pezzi privati dei materiali magici che li ricoprivano. Questa spiegazione dell’uso non è specifica né rigorosa. Non è specifica poiché essa è applicabile a oggetti non africani, a usi diversi da quelli magici e ad altre arti oltre alla scultura. Non e rigorosa poiché, in alcuni casi, le parti destinate a rimanere invisibili sono rifinite come le altre. Vanno ancora spiegati i pezzi non finiti interamente. Lo “stile di abbozzo” non basta a conferire loro la qualità estetica. La storia delle teorie dell’arte mette a nostra disposizione numerose possibilità di giustificare il nostro apprezzamento: quella alla quale si ricorre con maggior frequenza ritiene queste opere espressioniste. Ma una cosa è interpretare il non-finito o lo stile di abbozzo in termini di espressione, altro è sapere, sulla base di informazioni etnografiche, se i fruitori di tali opere le apprezzino in questo modo e se dispongano di termini correttamente traducibili mediante il nostro vocabolario espressionista. Poiché abbiamo la tendenza ad attribuire l’espressione che ci aspettiamo a oggetti inespressivi, come a quella parte di scheletro così descritta da Paul Valéry: “Questo cranio vuoto e questo riso eterno”, ci troviamo di fronte a una questione di estetica comparata.

Yombé. Feticci “nkisi nkonde”, 1911.

Estetica 4. La rappresentazione del movimento.
E’ stato detto che, nella loro maggioranza, le sculture africane non rappresentavano il movimento dei personaggi riprodotti; che, nei rari casi in cui lo tentavano, non raggiungevano lo scopo o lo raggiungevano malamente. Se ne deduceva che la maggior parte degli scultori africani sono incapaci di rappresentare il movimento. Queste critiche non sono specifiche, sono dirette a tutte le arti dette «primitive» o arcaiche. Anche qui, il giudizio che svilisce le opere e quello che denigra lo scultore devono essere disgiunti. Il primo riguarda gli oggetti osservabili, il secondo verte sulle intenzioni e le capacità e non basta formularlo solo in base all’osservazione senza controllo etnografico.
Nella maggioranza dei casi, il primo giudizio negativo sembra legittimo. Le statue africane non rappresentano il movimento perché la funzione che esse rivestono richiede l’immobilità sacra -lo ieratismo- dei personaggi che rappresentano o che personificano. In una minoranza di casi si riconosce senza difficoltà la rappresentazione del movimento. Gli esempi migliori sono forniti dai pesi per la polvere d’oro utilizzati nel gruppo Akan e dalle statue provenienti dalle chefferies (Bamileke, Bamum, ecc.) delle savane del Camerun. Esistono, ci sembra, casi intermedi che portano a chiedersi se un giudizio negativo non risulterebbe, ancora una volta, dalla trasformazione di una differenza in negazione.
In tre casi lo scultore africano può rappresentare un movimento differente da quelli che noi siamo in grado di anticipare e di attenderci. Il movimento rappresentato può essere diverso dai movimenti che siamo soliti incontrare nella realtà extrartistica costituita dal nostro ambito culturale. Può essere diverso da quelli che abbiamo visto rappresentati nella realtà artistica che conosciamo. La sua differenza può infine essere costituita dal fatto che esso è rappresentato in un modo diverso da quello al quale siamo abituati. I primi due casi riguardano il movimento come oggetto, soggetto o materia della rappresentazione; il terzo, la forma della rappresentazione e le convenzioni figurative del movimento.
Danze, cerimonie e rituali africani comprendono movimenti che noi non conosciamo, ma che lo scultore africano può rappresentare. Le danze africane sono così diverse dalle nostre che noi non possiamo assimilarle; sono diverse anche dall’idea che noi possiamo farcene. Riesce così difficile evitare un giudizio negativo, mentre il ricercatore che le avrà viste potrà riconoscerle nella rappresentazione scolpita. Non possiamo neppure affidarci all’impressione di staticità che suscita la visione di una scultura isolata, poiché le nostre impressioni subiscono anch’esse l’intervento delle anticipazioni e il loro ambito di pertinenza, come quello delle nostre prenozioni, ne viene ridotto. Da una scultura isolata che ci pare statica, non possiamo dedurre che essa non rappresenta alcun movimento. Così, la frontalità e la simmetria di alcune statuette mossi suggeriscono a prima vista l’impressione di staticità, ma, come riferisce M.L. Bastin, A. Schweeger-Hefel ha mostrato delle “fotografie di donne che danzano, le braccia leggermente scostate dal corpo, suggerendo come questa coreografia, discreta ed elegante, abbia potuto ispirare la struttura del corpo dei personaggi femminili” scolpiti.
J.L. Paudrat (1974), in un capitolo intitolato «La foresta danza» ha mostrato come, nella “visione coloniale”, alle danze africane siano associati la frenesia del movimento, la licenziosità dei costumi d’eccesso sessuale. L’esempio mossi dimostra che le danze africane non possono essere circoscritto a gesticolazioni frenetiche che quindi non ci si deve attendere sistematicamente. Mostra anche che la maniera di rappresentare il movimento non è forzatamente imitativa; il movimento della danza può, più sottilmente, “ispirare la struttura” dell’immagine. La fotografia, il cinema e la televisione possono ovviare a questa ignoranza. Ma la documentazione fotografica ha dei limiti, poiché anch’essa si fonda su convenzioni figurative. “Gli uomini hanno l’abitudine, ogni volta che scoprono una rassomiglianza tra due cose, di attribuire all’una e all’altra, perfino in ciò che le distingue, quello che essi hanno riconosciuto autentico dell’una e dell’altra”. Anche se una fotografia e una scultura sono, entrambe, rappresentazioni immobili del movimento, non ne deriva che esse lo riproducano nello stesso modo, mediante convenzioni figurative identiche. Non si può dunque assimilare la rappresentazione scultorea del movimento all’istantanea fotografica.
La famosa analisi di Rodin(1967, pp.46-47)del “Maréchal Ney” di Rude, basta a dimostrarlo e contiene delle anticipazioni più sottili. Secondo Rodin, Rude ha formulato due osservazioni istantanee ma parziali, omogenee in quanto convenzioni figurative, ma diverse nel loro oggetto: due parti diverse del corpo in due momenti diversi (successivi) del movimento. L’analisi del modo di rappresentazione del movimento distingue cosi due livelli, quello delle parti e quello del tutto. Ora, come abbiamo detto, lo scultore africano può trattare diversamente le parti di una stessa scultura, ciò che permetterebbe di applicare la procedura di analisi di Rodin. Una scultura africana può riunire le rappresentazioni di una parte mobile e di una parte immobile. Alcune statuette teke rappresentano un corpo immobile e delle gambe flessibili che, secondo Hottot riproducono il movimento delle gambe nella danza degli uomini chiamata “nkíbi”.
Tale convenzione figurativa, che associa la rappresentazione di una parte immobile a quella di una parte mobile, può essere ispirata dalle danze stesse. In certe danze africane, alcune parti del corpo possono restare quasi immobili, dato che la vibrazione delle gambe viene associata all’immobilità del tronco o, inversamente, gambe per così dire bloccate possono reggere una specie di vibrazione del tronco e dei seni. Queste brevi osservazioni hanno lo scopo di suggerire quale sia il livello di complessità della questione.

Sango. Reliquiari, 1907-1908.

Ekpeya. Tamburo “ogbukere”, 1930/1939.

Ibibio. Maschera “ekpo”, 1930/1939.

Igbo. Statua “ikenga nimo”, 1930/1939.

Ika. Altare, 1930/1939.

Ikwerri. Maschera “asaba”, 1930/1939.

Wé. Maschera, 1934.

Yombé. Feticcio “nkisi nkonde”, 1906.

Bena Mitumbo. Maschera “katotoshi”, 1930.

Luvale. Maschera “mupala”, 1889.

Senufo. Maschera “gbon”, 1920.

Bamileke. Maschere “mbap mteng”, 1930.

La forma selvaggia ( terza parte ) a cura di Giorgio Rusconi.

Zombo. Maschere “Nlongo”, 1903.

Bwende. Processione “niombo”, 1932.

Società e arti tribali. Stephan Paudrat, 1998.


Il concetto di arte tribale è stato proposto (W. Fagg, 1965) in sostituzione di quello di arte primitiva. Le società primitive non vengono più confrontate con quelle che non lo sono ma tra di esse. Ci si propone di distinguere le arti e i loro stili differenziando le tribù che producono queste arti. L’intento classificatorio è palese. In realtà la maggior parte delle attribuzioni utilizza come etichette o predicati nomi di «tribù››. Secondo W. Fagg, ogni tribù, “sul piano artistico forma un universo a sé”. “Questi universi sono realmente chiusi l’uno nei confronti dell’altro e (…) il loro orizzonte è racchiuso entro le loro frontiere (…). La tribù è un gruppo circoscritto, esclusivo, per il quale l’arte è un mezzo, tra altri, per esprimere la solidarietà interna e l’autarchia e, inversamente, per differenziarsi dagli altri gruppi”. Di conseguenza, due aspetti contrappongono la tribù alla nostra società. In primo luogo, poiché l’arte è funzionale all’interno di una tribù, non esiste discordanza alcuna tra questa e il suo pubblico; inoltre, poiché l’arte, al di fuori della tribù, non è funzionale, i membri di una tribù “sono indifferenti alle arti delle altre tribù”, mentre la nostra società è in grado di accogliere tutte le arti (p.12). Per la verità, va detto che W. Fagg integra questa tesi con sfumature e restrizioni che alcuni critici contestano.
Ma questa tesi presenta un nucleo, riassunto da una formula canonica: “una tribù, uno stile”, che costituisce il bersaglio di numerose critiche (D. Biebuyck, 1966; F. Willett, 1971; S. Ottenberg, 1971; R. Bravmann, 1973; L. Siroto, 1976; J. Vansina, 1984; C. D. Roy, 1985, tra gli altri). Bersaglio della critica non è tanto l’uso delle attribuzioni tribali, quanto il fatto che non sono esaurienti: esse devono essere considerate solo come approssimative e provvisorie. Il nucleo della tesi comprende tre elementi: una relazione e i suoi due termini. La relazione è una corrispondenza biunivoca, uno-uno: una tribù, uno stile. I termini sono le diverse tribù classificate nel concetto generale di tribù e le loro diverse arti poste nel concetto generale di stile. Le critiche riguardano questi tre elementi.

Kongo. Feticci regione Loango, 1916.

La corrispondenza tra tribù e stile.
In linea generale, l’ipotesi di una corrispondenza biunivoca può essere considerata in due modi complementari. Si menzionano alcuni casi osservati nei quali uno dei termini di una serie corrisponde non a un solo termine, ma a due o anche più termini dell’altra serie. In questo contesto si citeranno due casi di corrispondenza: 1) tra una sola tribù e due o più stili: si respingerà così l’omogeneità stilistica inter-tribale; 2) tra un solo stile e due o più tribù: si respingerà così l’eterogeneità stilistica inter-tribale e la chiusura delle frontiere. Ora, gli esempi di questi due casi abbondano nella letteratura etnografica e la tesi che non li considera si rivela una semplificazione ingiustificabile della realtà studiata.
Primo caso: corrispondenza tra una tribù e due o più stili. La denominazione tribale è provvisoriamente accettata; d’altra parte, non si tratta di sotto-stili che corrispondono a sotto-gruppi della tribù, essendo mantenuta la corrispondenza biunivoca tra sotto-tribù e sotto-stili. Si può così contrapporre (S. Ottenberg, 1983, p.51) l’arte yoruba, che “ammette una variazione regionale all’interno di un quadro estetico generale”, al fatto che “non esiste alcuna forma di arte con valore di tipo per tutti gli Igbo”. Ad esempio, gli stili delle maschere udi, bende, achi e afikpo sono tanto diversi gli uni dagli altri quanto lo è ciascuno di essi da quello dei Bini e degli Yoruba (Bascom, 1973, p.102). Non vi è corrispondenza tra la diversità dei sotto-stili igbo e l’omogeneità culturale dell’etnia nel suo insieme.
Stili molto differenti possono essere osservati non solo all’interno di una stessa tribù, ma anche in una stessa istituzione. Presso i Baulé, durante la danza goli vengono utilizzate maschere “di aspetti così diversi che potrebbero essere attribuite a popoli diversi (…) se non si conoscesse la loro provenienza” (G.N. Preston, 1985, p. 14). Gli stili di queste maschere si differenziano secondo tre parametri: bi- o tridimensionalità, semplicità o complessità, astrazione o naturalismo. Una differenza di stile può essere rilevata su un solo e medesimo oggetto ed essere giustificata da considerazioni iconografiche. A proposito dello sgabello dogon detto “imago mundi”, Jean Laude (1973, p.84 e 1978, p.96) scrive che non tutti i personaggi manifestano lo stesso stile, a seconda che essi rappresentino un sacerdote (hogon) o alcuni personaggi mitici (“nommo”). In alcuni gruppi in bronzo del Benin, il re divino (“oba”) e lo schiavo non sono rappresentati nello stesso stile: le loro proporzioni sono molto diverse.
La maschera yoruba detta “epa” è composta da una maschera elmo, in stile non naturalista, e da una sovrastruttura le cui figure palesano il criterio della “mimesi relativa” (Thompson, p.4). Quando le differenze stilistiche si manifestano nell’iconografia, è opportuno ricordare che il “soggetto” rappresentato può appartenere allo stile (N. Goodman, 1978, II, 2). Non bisogna dedurne che la formula “una tribù, uno stile” non sia applicabile in alcun caso, ma solo che essa non lo è in tutti i casi e che non può quindi caratterizzare l’arte africana in generale.
Secondo caso: corrispondenza tra uno stile e due o più tribù. Sarebbe come dire che l’area di ripartizione dello stile non coincide con i territori tribali, o che la frontiera tribale è valicata o attraversata e non ha perciò limiti netti o impenetrabili. I casi citati possono così servire a respingere una delle proprietà che definiscono la tribù. In alcuni casi, lo stile considerato è correlato con un’istituzione comune alle diverse tribù, istituzione che utilizza gli oggetti di questo stile. Un esempio sono le maschere elmo prodotte da uomini ma, evento raro se non addirittura unico in Africa, portate dalle donne, che vengono utilizzate da una società iniziatica femminile, chiamata “sande” o “bundu”, presso i Mende della Sierra Leone, e presso i Bassa, i Vai, i Gola, i Kpelle e i Dei, in Liberia (M. Adams, 1982, pp.62-69). Si potrebbero probabilmente distinguere dei sotto-stili tribali, che sono però subordinati a uno stile comune in relazione a questa istituzione comune e non alle tribù.
In altri casi è una tecnica comune a diverse tribù. Per pesare la polvere d’oro si utilizzavano dei pesi in ottone, e in particolare dei pesi dai tratti figurativi, il cui stile è comune a diverse tribù del gruppo akan, come i Baulé e gli Ascianti. (Questo stile è, peraltro, diverso da quello delle statuette o delle maschere di queste tribù, particolare che costituisce un altro esempio del primo caso). Vanno dunque ricercate le ragioni che portano gli oggetti e il loro stile a valicare e attraversare le frontiere: è quanto ha fatto R. Bravmann in un saggio intitolato “Frontíêres ouvertes”. Consideriamo in particolare la circolazione commerciale degli oggetti, anteriore alla colonizzazione, e l’esistenza di mercati nei quali clientela e fornitori provenivano da tribù diverse. Attraverso indagini di questo genere si passa dall’etnologia alla storia dell’arte africana tradizionale.

Ekoi. Maschera società “oban”, 1912.

Il concetto di tribù.
Tralasceremo le critiche (ad esempio Godelier) che vertono direttamente sul concetto di tribù e prenderemo in considerazione quelle che puntano sull’applicazione di questo concetto all’arte: sia i diversi gruppi sociali ai quali si applica il termine di tribù, che le proprietà degli stessi che rientrano nella definizione del concetto. Perché il concetto sia comune e abbia limiti definiti è necessario che tutte le proprietà che esso comprende siano autentiche per ognuno e dunque per tutti questi gruppi sociali. A rigor di termini, basta dimostrare che una di queste proprietà non adempie a questa condizione.
Secondo la tesi, le frontiere della tribù sono chiuse e per questa ragione devono essere precise. Ora, non tutti i gruppi denominati tribù possiedono delimitazioni precise. Presupporre una frontiera netta significa proiettare nell’Africa tradizionale un fatto europeo moderno. Le frontiere degli Stati attuali derivano dalla colonizzazione e attraversano spesso territori etnici anteriori. Diversi gruppi cosiddetti tribali sono il risultato di raggruppamenti di popolazioni da parte dell’amministrazione coloniale.
Le frontiere di una tribù sarebbero i limiti geografici di un territorio occupato in maniera omogenea da tutti i membri di una tribù e da essi soli. Questa popolazione omogenea risulta così concentrata. (La concentrazione si differenzia dalla densità: una popolazione di scarsa densità può essere omogenea e concentrata.) Ora, nell’Africa tradizionale, la ripartizione territoriale delle popolazioni non presenta quest’unica forma. Una popolazione può essere dispersa; può essere divisa in due o più parti omogenee, separate da una o da diverse altre popolazioni; può essere mischiata a popolazioni diverse; può essere in parte omogenea e concentrata e in parte mescolata. In alcune regioni dello Zaire (ora RDC), ad esempio, la dispersione e la mescolanza sono la forma di ripartizione più frequente (Biebuyck, 1985).
Imponendo frontiere precise e chiuse a queste “tribù”, l’etnologo assomiglia a quelli che, secondo Prevert, “conficcano in sogno dei cocci di bottiglia sulla Grande Muraglia cinese”. Così, Bravmann parla di frontiere aperte. Avere frontiere precise e chiuse è una proprietà che non appartiene a tutti i gruppi chiamati tribù. Beninteso, non vanno confuse le frontiere delle tribù con le frontiere del concetto di tribù, l’uso letterale e l’uso metaforico della parola. Non tutti i gruppi chiamati tribù sono contraddistinti dalla proprietà di possedere una frontiera (in senso letterale) definita, pertanto tale proprietà non servirebbe a definire la tribù mediante un concetto che ha un limite (metaforicamente) netto. Questa argomentazione può essere applicata ad altre proprietà, come la lingua (Vansina, 1984, pp. 31-32).

Mende. Maschere “bundu”, 1905.

Il concetto di stile tribale.
Il concetto di stile, come quello di tribù, può essere esaminato per se stesso (M. Schapiro, 1982) o nella sua applicazione all’arte tribale. Lo stile tribale è determinato da un tipo morfologico costituito, in linea generale, dai tratti comuni a tutte le opere prodotte nella tribù. Questo tipo o è descritto verbalmente mediante proprietà comuni, o è simboleggiato da un disegno schematico. Lo si può esaminare da due punti di vista. Innanzitutto, qual’è la procedura per la definizione del tipo? La si ottiene per confronto e astrazione: si osserva il maggior numero possibile di opere concrete e, per confronto, se ne definiscono i caratteri comuni. Ma non è possibile disporre di tutte le opere prodotte dalla tribù; il materiale disponibile e dunque il risultato di una selezione.
Questa selezione deve essere fatta su pezzi accompagnati da una precisa documentazione, per evitare di confondere, ad esempio, la produzione di una bottega molto attiva e uno stile tribale rappresentato da pochi oggetti (Vansina, 1984, p.29). Per giunta, la selezione deve rappresentare una campionatura statistica; condizione questa raramente soddisfatta. Può essere messo in discussione anche l’intento di costituire tipi morfologici così concepiti. Poiché questi tipi hanno funzione di predicati nelle attribuzioni, si può ricorrere a un’osservazione di M.J. Friedländer (1969). Egli non analizza la proposizione attributiva, ma la procedura intellettuale e percettiva che pone e garantisce l’attribuzione. Si parte dalla “convinzione che la personalità artistica è una e indivisibile”, che l’artista resta identico a se stesso nel corso della sua vita e “che un certo non so che di insostituibile si manifesterà in ognuna delle sue creazioni” (p.225). L’osservazione attenta e continua di opere indiscutibilmente autentiche consente all’”intenditore” di formare un’immagine generica con cui egli confronta le opere alle quali deve ancora essere data un’attribuzione; immagine che costituisce, per un sostenitore dell’intuizione come Friedlãnder, ciò che per i sostenitori del metodo di Morelli rappresenta il tipo. Ma, egli continua, questa convinzione è “spesso smentita dai fatti”.
(…)
“Se, nonostante numerosi insuccessi proseguiamo in questa ricerca, ci troviamo nella stessa situazione di quella persona che, pelando una cipolla, deve alla fine riconoscere che questa non contiene altro che buccia” (p.230). La delusione di chi pela una cipolla è analoga a quella del tipo che, disfando la corda di Wittgenstein, cercasse una fibra che la percorre per tutta la lunghezza. Non vi sono tipi comuni a tutte le opere, non vi sono fibre che percorranno tutta una corda e non vi sono noccioli sotto la buccia della cipolla. “Se”, continua Friedländer, “tutti i quadri di Rembrandt fossero andati perduti salvo due, uno del 1627, l’altro del 1660, sarebbe impossibile collegarli mediante il solo esame dello stile. Si devono conoscere tutte le maglie della catena, cioè l’intera opera, per essere in grado di associare logicamente l’inizio alla fine” (id).
Tra i due estremi senza proprietà comuni, si ritrova la serie continua di intermediari di Wittgenstein, F. Willett e M. Roskill. Queste indicazioni possono essere trasposte dalla personalità artistica individuale al tipo morfologico collettivo. Vansina (1984, pp.90-91) fornisce un ottimo esempio dell’inserimento di un intermediario tra due entità stilistiche senza tratto comune: “Consideriamo lo stile tipicamente centrale del Shaba (Luba) costituito da volumi arrotondati, poi lo stile nord-orientale del Kasai (Songye), quasi cubista con i suoi volumi angolari tratti da forme geometriche. È difficile qui immaginare uno stile di transizione. E tuttavia esiste davvero e offre dei capolavori sorprendenti” (Anversa, Museo etnografico, n. A E 744). Nelle tipologie abituali, anziché introdurre intermediari o transizioni, si parla di tipi misti e alcune opere vengono classificate come atipiche, cioé inclassificabili.
Da tutta questa dissertazione sulla nozione di arte tribale, si possono trarre due conclusioni, non egualmente rigorose. La più grave è decidere l’abbandono puro e semplice della ricerca del tipo tribale; le attribuzioni tribali potrebbero essere conservate solo ammettendone la limitatezza: un minimo di classificazione basato sull’etnocentrismo, anche se assolutamente insoddisfacente è meglio di una totale mancanza di ordine. “È ora di rinunciare a questa nomenclatura artificiale. Gli oggetti andrebbero classificati a seconda del loro villaggio e della loro bottega di origine, se conosciuti, altrimenti mediante il riferimento all’istituzione alla quale sono associati” (Vansina, id., p.33). D. Biebuyck (1985, p.97), è meno severo: egli accorda alla classificazione tribale un valore euristico. Che, nella nostra terminologia sull’arte tribale, non sarebbe un concetto scientifico, ma solo un abbozzo provvisorio che consente di avviare l’indagine, in breve, un’anticipazione.

Bamileke. Maschera “nshen” e diverse, 1917.

Specificità e purezza.
Si è sostenuto che gli oggetti africani non fossero espressione dell’arte ma della religione. Questa convinzione negativa derivava da ciò che si intendeva per arte: o oggetti che imitano fedelmente un modello naturale, o “l’arte per l’arte”. La nozione dell’arte per l’arte è la volgarizzazione della nozione kantiana di finalità senza fine. A rigore, non solo le opere africane, ma tutte le opere religiose non dovrebbero considerarsi arte; esse manifestano un’arte concepita diversamente dall’arte per l’arte. O si riconosce la differenza tra due statuti diversi dell’arte, oppure, trasformando questa differenza in negazione, si esclude dall’arte tutto ciò che non si manifesta come arte per l’arte. Questa esclusione presuppone un kantismo volgarizzato e mal interpretato. Ma in realtà Kant, che a quanto sembra è la bestia nera degli etnologi, non c’entra. Egli non sostiene che un’opera con un fine funzionale non sia un’opera d’arte, ma solo che essa non è puramente artistica. Sul piano dell’analisi concettuale, egli purifica la nozione di opera d’arte, ma non pretende che le opere concrete debbano essere perfettamente adeguate a questa nozione pura.
In altri termini, egli distingue specificità e purezza. La specificità è l’insieme delle proprietà che definiscono l’opera d’arte; ma, una cosa è la definizione, altra cosa sono le opere concrete che essa definisce. Queste ultime possono presentarsi sotto due diversi aspetti. O possiedono soltanto le proprietà che definiscono l’arte, e allora sono opere d’arte allo stato puro. Oppure possiedono si queste proprietà, che le rendono specificatamente artistiche, ma possiedono anche caratteristiche funzionali; in questo caso non si può dire che siano puramente artistiche. La purezza implica la specificità; ma a queste opere impure o funzionali si ha il diritto di chiedere solo la specificità. La confusione fra specificità e purezza crea un’aspettativa di purezza e porta quindi a rifiutare qualsiasi opera d’arte che sia impura. Il fatto che delle opere siano utilitaristiche o funzionali non è una ragione sufficiente per escluderle dall’ambito dell’arte, ma soltanto da quello dell’arte pura. La distinzione tra lo stato di purezza e di impurità non è meramente concettuale, non è semplicemente una visione della mente. Una stessa opera d’arte può presentarsi sotto queste due forme.
Gli oggetti africani osservati nel loro luogo di origine e di utilizzo sono funzionali; ma gli stessi oggetti, sradicati da questo contesto e spesso spogliati da ciò che viene ritenuto accessorio, vengono conservati nel museo come opere puramente artistiche, facendo astrazione o ignorando le loro proprietà funzionali. Certo non tutte le opere funzionali possono ricevere questo secondo statuto: devono infatti necessariamente possedere una specificità artistica, che non sempre è legata al valore funzionale.
Sono due le applicazioni del concetto di purezza che ci interessano direttamente. La prima concerne le relazioni tra l’arte e ciò che è “altro” rispetto all’arte, religione, politica, giustizia, magia o tecnica. Queste altre espressioni della cultura costituiscono, per l’opera d’arte, altrettanti fattori o elementi di impurità; ma quando, anziché escluderli, li si prende in considerazione, essi forniscono all’opera le sue funzioni o i suoi usi. Si può comprendere come un approccio funzionalista all’arte mal si concilia con le nozioni di arte per l’arte o di arte pura. La seconda applicazione del concetto di purezza riguarda la relazione tra un’arte e le altre arti, ad esempio tra la scultura e l’architettura o la pittura, o, in Africa, tra la scultura e la danza o la musica. In Occidente, con l’intenzione di realizzare dell’arte pura è apparso il proposito di realizzare una poesia pura, una pittura pura, una scultura pura. In effetti, la storia delle teorie occidentali dell’arte dimostra che la questione della relazione tra le differenti arti è duplice.
Da una parte, dividendo il genere “arte” nelle sue diverse specie, le “arti”, si intende dare una classificazione e una definizione di ciascuna di esse; classificazione che, suddividendo le arti alla stessa stregua delle specie naturali, definisce lo stato di purezza di ciascuna di esse eliminando gli ibridi. Dall’altra parte, si riuniscono le varie arti, subordinandole le une alle altre, per arrivare alla fine a metterle sotto il dominio di un’arte dominante egemonica, o “architettonica”. Questa seconda prospettiva è, per Collingwood, caratteristica del funzionalismo (che egli definisce teoria tecnica dell’arte). Il prodotto di ogni arte è utilizzato da un’altra arte alla quale, per questa ragione, è subordinato. Così, ad esempio, l’architetto utilizza la scultura come elemento decorativo o iconografico. È chiaro dunque come un’arte architettonica si accordi all’approccio funzionalista.
Ora, in contrapposizione alla ricerca della purezza nell’arte, c’è l’idea di un’arte totale come l’opera wagneriana o la danza secondo Serge Lifar, che non è altro se non una metamorfosi dell’idea di arte architettonica. È allora consentito chiedersi se alle due possibili maniere di considerare una scultura africana -fuori dal suo contesto, in un museo, e, in situ, nel suo luogo d’origine e di utilizzo- non sarebbero consone le nozioni, rispettivamente, di scultura pura e di scultura integrata a un insieme funzionale costituito dai rituali, dalle cerimonie o dalle feste che offrirebbero l’analogo africano dell’opera occidentale. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, sono richieste due condizioni.
In primo luogo il riconoscimento, ancora una volta, con J. Vansina (1984, pp.126-129), dell’esistenza di arti “di performance” come danza e musica, accanto ad arti plastiche o ad esse associate. In secondo luogo il riconoscimento dello statuto artistico delle attività di performance, come i rituali, le cerimonie o le feste; se non a tutte, almeno ad alcune.
(…)
La nozione di purezza presuppone quella di essenza o di natura. In effetti, è pura una cosa costituita esclusivamente di elementi che compongono la sua natura o la sua essenza. Un’acqua pura contiene solo molecole d’acqua, senza nessun altro corpo sciolto. In senso classico, secondo Platone, la natura o essenza è indicata da questa domanda: cos’è? La definizione formale di essenza è la risposta a questa domanda. Così, se parliamo di arte pura, implicitamente presupponiamo che esista un’essenza dell’arte e che disponiamo di una definizione rigorosa di essa; parlando di scultura pura, ad esempio presupponiamo una definizione rigorosa della scultura. Questo duplice presupposto non sembra fondato. Se disponessimo di tali definizioni, accettate dalla comunità degli esperti, si verrebbe a sapere, come dice Sartre. Argomento tipicamente scettico: tante teorie dell’arte o della scultura, tante definizioni diverse. Noi proporremo l’ipotesi che non esista un’essenza o una natura dell’arte e della scultura.
Ma rinunciare a questi presupposti essenzialistici non rende necessariamente superflua la distinzione tra specificità e purezza; richiede solo che la si consideri in altro modo. Un’arte pura e un’altra forma culturale distinta, come la religione, possono essere considerati i poli estremi di una serie di intermediari che permettono di collegarli gradualmente. Del resto, se esistono arti profane, non religiose, esiste una religione senza arte? Lo stesso dicasi tra una scultura indipendente dall’architettura e una architettura senza scultura (che realizza lo stile internazionale e verso la quale tendeva l’austerità cisteriana); esistono fra di esse intermediari che possono subordinate sia l’architettura alla scultura che la scultura all’architettura. Consideriamo il monumento equestre, raffigurato da Donatello e dal Verrocchio. In una classificazione purista, in quale scomparto classificarlo? Nessuno gli si addice, oppure gli si addicono tutti. Lo si può inserire forzatamente in una tale classificazione ma rompendo l’unità dell’opera in due parti: il basamento e la statua equestre.
(…)
La preferenza accordata al purismo nello studio delle relazioni tra l’arte e le altre forme culturali, o tra la scultura e le altre arti, è etnocentrica e anacronistica. Nella società occidentale moderna, le diverse forme culturali tendono a separarsi realmente, a costituirsi in istituzioni distinte e a rendersi indipendenti. L’autonomia dell’arte, considerata spesso come una conquista della seconda metà del XIX secolo europeo, ne è un caso particolare. Le istituzioni giuridiche ed educative si dividono dalla religione e, più difficilmente, dallo stato. J. Ellul (1954) ha dimostrato magistralmente come la tecnica si sia costituita forma culturale autonoma. Al contrario, dovunque nelle società tradizionali del passato o contemporanee, le diverse istituzioni o forme culturali sono intimamente associate. “Migliorando la nostra conoscenza della cultura africana antica, diventa più chiaro che tutto vi è intessuto a numerosi livelli” (W. Fagg, 1971, p.7). Lo statuto di arti particolari, come la scultura, richiama la stessa osservazione. In ogni caso, serie di predicati di somiglianza familiare ci paiono più adatti a descrivere la situazione africana, rispetto ai concetti comuni con limiti precisi che mirano a definire l’essenza o la natura.

Tchokwe. Maschera “lwena mwana pwo”, 1920.

Ibibio. Maschera “hinged jaw”, 1932/1938.

Igbo. Statua “ikenga achalla”, 1930/1939.

Abua, Maschera “oki”, 1930/1939.

Ejagham. Maschera, 1912.

Ekoi. Maschere, 1918.

Baga. Maschera “d’mba” o “nimba”, 1938.

Bamun. Maschere, 1930.

Luba. Pipa e “mboko”, 1910.

Kuba. Maschere, 1909.

Lunda. Feticcio, 1906.

Songye. Mankhisi di comunità. ca.1930.

Sungu. Maschera, 1908.

Bembe. Statue “niombo”, 1927.

La forma selvaggia (parte seconda )

Scoprire l’Africa. Luigi Baldacci, 1989.


Si può arrivare all’Africa Nera da tante parti. A me è accaduto di sbarcare su questo continente in seguito a un’intossicazione, protrattasi per molti anni, di arte italiana antica a forte connotazione espressiva e sentimentale, profondamente radicata in una sua necessità storica, sicché il giro di soli cinque anni è sufficiente a determinare in essa variazioni di rapporti che, viste soprattutto dall’interno del sistema, sembrano decisive. Da una superficie mobile, cangiante, approdare a una riva basaltica, questa la prima impressione, o, insomma, la mia esperienza esistenziale: anche se poi, appena messo piede su quella terra ignota e affascinante, poteva subentrare il sospetto che il campo delle sensazioni tornasse ad essere rifranto secondo gli stessi principi di differenziazione dominanti nell’esperienza europea.
Le forme di una maschera Bambara o di una maschera Baulé apparivano, anche al catecumeno, profondamente diverse. Si riproduceva quello stato perenne di tensione che era caratteristico della ricerca fatta in Italia: pero la geografia prendeva il netto sopravvento sulla storia, gli archetipi s’imponevano con l’autorità delle idee, le persone si ritraevano nell’ombra, si dissolvevano, non esistevano: esisteva soltanto l’opera nella sua assolutezza, generata da una mente divina che si serviva dell’artefice come di uno strumento. E sappiamo benissimo, invece, che le cose non stanno cosi e che oggi si tende a recuperare una storia e una storicità dell’Africa e dell’arte africana e si arriva perfino ad enucleare delle personalità creatrici da un contesto di forme increate: ma resta il fatto che questo sentimento di silenzio, questo prendere atto della caduta di tutti i nostri parametri sono cose del tutto nuove e profondamente suggestive per chi viene da quell’altro mondo, dove il primo proposito, la prima necessità è stabilire se sia stato il Pignoni o il Montelatici o il Botti a inventare quella figura di santa o quell’allegoria.
Quanto al concetto di storia, può darsi che il discorso sull’arte negra sia stato incapsulato in una falsa dialettica. In un primo momento quella possibilità di una storia l’abbiamo troppo negata, poi, per fare ammenda, ne abbiamo concessa anche troppa; e naturalmente si trattava dell’unica storia che fossimo in grado di elargire: la nostra. Voglio dire cioè che non siamo riusciti a immaginarla, quell’arte, senza farla passare attraverso il filtro o la lente della nostra mentalità: ci è sembrato intollerabile che la sua vicenda si svolgesse fuori dalle nostre forme di pensiero, o, al contrario, ci è sembrato suggestivo o perfino generoso attribuirle quei parametri e quelle forme riconducendola sotto il concetto di un’originalità estetica e di un’espressività artistica che, a ben considerare, non è valido neppure -almeno nella gran parte del suo svolgimento- per l’arte europea.
Nel fondamentale saggio di Ezio Bassani, “La cultura europea e la scultura dell’Africa Nera”, c’è una citazione di Hegel che, riferita al “negro”, potrebbe essere trasposta all’arte e, debitamente decontestualizzata onde non fare di Hegel un pionieristico scopritore, sarebbe da usare come epigrafe di ogni discorso su questo problema: “Per comprenderla dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee”. Intanto, per un recupero storico dell’arte africana ci sono delle difficoltà obiettive.
Noi sappiamo che essa ha avuto una storia, dalla cultura Nok, a quella Ife, a quella Benin: ma si tratta di isole, d’immense zattere alla deriva che non hanno più la contestualità e l’organicità di movimenti e di fatti in divenire. Quella storia si è inabissata. La cultura africana non ha memoria perché non ha scrittura e non ha scrittura perché non ha memoria. C’è anche questo aspetto da meditare: l’Africa non ha avuto bisogno di un alfabeto perché non ha mai interrotto il contatto con i suoi dei, i suoi archetipi. Indubbiamente noi non possediamo i documenti di quella storia: ci sono stati cataclismi colossali che hanno attraversato questo continente e non sono stati registrati; ma la storia, la scrittura significano la separazione del mondo umano dal mondo divino, e questa separazione in Africa non c’è stata, o non c’era stata almeno prima dell’ultima colonizzazione, islamica o cristiana.
Noi ci accostiamo a tutto, e quindi anche all’arte negra, secondo la nostra ottica antropocentrica; non accettiamo il selvaggio se non come un mito illuministico, e invece l’Africa Nera stabilisce un punto di valore proprio dove noi, antropocentricamente e umanisticamente, vediamo un disvalore. Per noi conta l’affermazione dell’uomo sulla natura, il suo distacco spirituale dalla materia, la presa di coscienza: questo processo nell’Africa Nera non c’è stato. La nostalgia di Leopardi (l’unico pensatore moderno che abbia avuto il coraggio di un assoluto antiumanismo) per un’immagine dell’uomo che, prima del peccato originale, fosse ancora parte integrante del sistema della natura, è per noi solo un sogno regressivo del civilizzato che intende azzerare il proprio bilancio culturale, ma poteva trovare appagamento nella realtà del mondo africano. Quando si dice che questo mondo è fuori del tempo, non si dice poi cosa tanto convenzionale e banale come oggi si tende a credere. È la sua struttura religiosa -dove religiosità, materia e natura sono elementi inscindibili- che è necessariamente metatemporale. E forse l’Africa Nera è il rimorso dell’uomo moderno, la sua occasione mancata: ammesso che gli uomini volessero continuare a vivere su questa terra anziché accelerare la propria scomparsa.
Ma tornando ai cataclismi, ai diluvi che hanno cancellato la storia dell’Africa, non bisogna dimenticare che la stessa arte è stata, per una grandissima quantità di oggetti, spazzata via insieme con quella storia. È vero che l’antichissima arte Nok e l’arte Yoruba dimostrano, per fare un esempio, essenziali punti di contatto (e non si tratta di una ripresa intellettualistica, come potrebbe essere quella del nostro neoclassicismo nei confronti dell’arte classica, bensì della perpetuazione di una stessa lingua naturale), ma occorre anche tener presente che l’arte negra di cui oggi parliamo, quella insomma giunta fino a noi e protrattasi -con contaminazioni più o meno turistiche- fino ai nostri giorni, altro non è che un velo di superficie rispetto a uno spessore di opere, di produzione, di tempi che non esiste più. Non solo: noi siamo abituati a vedere la storia in divenire; la storia dell’Africa, per quel che ci assicurano l’archeologia e la filologia, va in senso contrario. L’arte che commosse l’Europa nel punto della maggior gloria di Picasso, era l’arte di una civiltà in dissoluzione, stremata e depredata già dallo schiavismo e attaccata infine dal colonialismo. Non è retorica del nostro tempo: è bensì vero che il poco che sappiamo della storia dell’Africa ci assicura che l’Europa e l’America hanno nuociuto molto alla civiltà africana.
Ma se le nostre esperienze di quest’arte poggiano su un materiale per lo più molto recente che, cronologicamente, appartiene alla crisi di una società, resta una precisazione da fare: sarebbe un’altra indebita sovrapposizione di un nostro schema mentale definire quest’arte, come qualcuno ha del resto fatto, un’arte di crisi; sicché quella che apparve a Picasso e ai suoi amici come una meravigliosa possibilità di liberazione, sottratta a ogni formula e convenzione, rappresenterebbe invece una fase di decadenza rispetto alle culture antiche. Quell’arte, che poté essere adoperata come un sasso contro la vetrina dell’accademia (ed è il modo più naturale di adoperarla per chi, anche oggi, si avvicini ad essa), era in sé un’arte profondamente regolata, calata, per così dire, in un’accademia sua che, mantenendola fedele agli archetipi, la metteva al sicuro da un rapido dissolvimento. E così essa e forse sopravvissuta, in tempi calamitosi, alla stessa cultura che l’ha espressa; era in declino il potere delle società segrete, ma ancora si scolpivano bellissime maschere per i membri di quelle società.
Parlando di accademia, si rischia pero che la metafora e l’analogia ci portino troppo fuori strada. È più esatto dire che l’arte africana ha le sue regole, i suoi codici, i suoi modelli o archetipi, che devono essere ripetuti di padre in figlio, perché è appunto manifestazione della collettività, di tutta la sua cultura, e non è mai un fatto individuale, separato. Interpretarla sotto la categoria dell’originalità significa un totale fraintendimento, anche perché, a differenza della nostra -che è sempre stata l’espressione di un’élite e non dell’intero corpo sociale- essa, quando non sia arte di corte, ci offre occasioni esistenziali prima che simulacri. Le maschere antropomorfe o zoomorfe, le statue degli antenati (o degli sposi) sono oggetti di cui è spesso arduo ritrovare l’esatto significato: la cultura dell’Africa di ieri è stata troppo brutalmente sostituita da un’altra; ma noi possiamo esser certi che quella maschera o quella statua erano essenziali alla vita quotidiana nei suoi aspetti religiosi e sociali.
E anche il parallelo che possiamo fare con la nostra arte religiosa -non diciamo d’oggi, che non esiste più, ma di ieri- è assolutamente illusorio: la nostra arte rappresentava il sacro, non era in sé un oggetto sacro, non era la sacertà; l’arte africana è invece tutto questo in forza degli aspetti magici di quella cultura e di quella società. Quegli oggetti sono il tramite tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tra la materia e l’anima, tra il presente e l’eterno, il visibile e l’invisibile. Sono i veicoli necessari per questi viaggi.
Del resto la nostra arte era arte di storia, dell’Antico e del Nuovo Testamento, e l’arte africana è arte del presente, della vita e del rito inscindibilmente considerati. E quando si torna a porre la domanda se quest’arte abbia una finalità estetica, bisogna ripetere che tale domanda è mal posta. Quest’arte non ha finalità estetiche: ha quelle finalità di artificio, di eccellenza tecnica, di bravura che trovano il loro riconoscimento immediato da parte del corpo sociale e sono alla base non tanto del funzionamento di questo o di quel modo di espressione, ma della stessa psicologia umana. E tuttavia, poiché tale arte percorre e ripercorre il sentiero che ci porta nel regno delle ombre e degli spiriti e non può non avere, per questa stessa dialettica tra vita e morte, un significato simbolico, ne consegue che, essendo il simbolo l’essenza prima dell’operare artistico, essa viene a collocarsi sul piano di quella particolare espressività che è dei mondi poetici.
Il suo linguaggio non è di comunicazione tra gli uomini, ma di comunicazione tra sfere e piani diversi: il versante diurno e quello notturno, la fertilità e la morte. E qui si apre un discorso assai complesso, al quale non siamo certo in grado di dare una risposta, ma che tutt’al più cercheremo di delineare nel suo rilievo problematico. Quel linguaggio di simboli non è, come il nostro, intellettualizzato: tali simboli hanno la loro concretezza nella realtà quotidiana, corrispondono a bisogni precisi, e dovranno essere sempre uguali a quei bisogni. E perciò l’arte negra tende all’iterazione: l’archetipo diventa stereotipo, e molto spesso noi abbiamo lo stereotipo e non abbiamo più l’archetipo; ma lo stereotipo mantiene con l’archetipo un rapporto costante e necessario: lo riproduce volta per volta come per magia, è una transustanziazione di quell’archetipo medesimo. E comunque sia, noi siamo di fronte, generalmente parlando, a un’arte che si tramanda in termini seriali, ma che, proprio per la fortissima significazione spirituale che la sostiene, investe l’artista di un potere creativo che è, prima di tutto, magico, delegandolo alla creazione di nuove forme e magari di nuovi modelli che, per esser nuovi, saranno anche più efficienti.
Credo sia impossibile spiegare perché l’Africa Nera presenti una cosi sterminata varietà di forme insieme con una contraddittoria obbedienza alla perpetuazione delle forme ricevute. Si potrebbe semplicemente dire che i popoli africani sono, per ragioni evidenti, vicini alla sfera del fantastico, e quindi intendono l’arte come libertà e invenzione (come l’immagine concreta di ciò che non si vede) e d’altra parte sono condizionati a offrire (per le accennate ragioni sociali e religiose) la regolarità di un servizio pubblico, tenendosi pertanto al canone, al modello. Ma soprattutto questo nostro discorso dovrebbe portarci alla scelta di un giusto mezzo interpretativo. Non si deve considerare quest’arte come un anonimo prodotto, ma neppure si potrà insistere troppo sull’apporto storico di personalità singole, dimenticando che in questo contesto la vera storia è la preistoria, quella degli archetipi perduti. Il felice ritrovamento, sul territorio e nella loro contestualità, di un gruppo di opere omogenee e di eccezionale tenuta stilistica consentì d’isolare, nel fitto intrico delle culture del Congo, il Maestro di Buli. E anche se non sembra facile che si riproducano le condizioni che hanno reso possibile questa identificazione, gli studiosi sono oggi in grado di aggregare altri gruppi di opere sotto il nome di altri maestri. Ebbene: il rischio più evidente può essere quello dell’attribuzionismo, del quale chiunque abbia pratica della nostra arte antica conosce il fascino e i limiti. Ma diciamo in più che gli stessi rischi si presentano senza le stesse necessità.
Certo noi possiamo isolare gli esemplari cronologicamente più alti di uno stesso stile e di una stessa immagine e riconoscere, a quel punto della successione, la presenza di una medesima mano artistica, ma queste nozioni si rivelano immediatamente assai diverse nelle loro valenze rispetto alle analoghe d’uso europeo. Quando parliamo, per la nostra arte, del Maestro di Flémalle o del Maestro di Moulins siamo certi che quei gruppi di opere sono ferreamente determinati da una cronologia che non lascia adito a sorprese. Il Friedlãnder diceva che quando facciamo della critica facciamo sempre della cronologia: ebbene, questa condizione necessaria e ideale per lo studioso d’arte europea non si pone per quest’altra arte. Cosi noi conosciamo un numero grandissimo di maschere di cultura Baulé riconducibili alla caratteristica di una capigliatura asimmetrica, ma sappiamo anche che quelle maschere non possono appartenere tutte a una sola mano; e come ci sono maschere siffatte di cronologia più bassa, che sono degli affascinanti stereotipi, niente vieta che altre, di cronologia più alta o altissima, restino per ora fuori dalla zona illuminata della nostra ricerca.
Noi possiamo dunque trovarci di fronte a un vero maestro, nell’accezione corrente di questa parola, oppure a una persona artistica che interviene su un dato modello a una certa altezza della sua trasmissione. L’elemento indispensabile per l’individuazione dovrebbe essere, naturalmente, la qualità dell’opera; ma quello di qualità è un concetto applicabile sia all’inventore come all’interprete; e di fronte alla diversità esecutiva presente nelle maschere dovremo ammettere di essere ancora una volta in quell’alto mare in cui la regola del gioco è il rapporto fra tradizione e infrazione, sempre nell’incertezza che l’infrazione non sia il segno documentato di una tradizione diversa. E anche lo stesso concetto di qualità, che abbiamo invocato come criterio di ogni nostro accertamento, può sfuggirci del tutto. Indubbiamente c’è un’arte africana di bassa qualità, ma quando si passa alla qualità alta o sublime non bisogna dimenticare che spesso essa coincide esattamente con l’idea formale, prima ancora che con l’esecuzione manuale e tecnica.
L’arte africana ha insomma, nella sua essenza, un altissimo indice di concettualità (senza riferimento alcuno alla nostra arte concettuale), che si porta al di sopra della stessa manualità e ci rimanda ancora una volta a una radice platonica secondo la quale l’idea è prima della cosa e si colloca stabilmente fuori della storia e del mondo. Che è una condizione ben ardua e ben difficile da essere accettata sul piano pratico, ma dalla quale credo non sia possibile prescindere del tutto.
Quanto invece al piano storico, l’esempio più suggestivo del rapporto tra codice linguistico e infrazione ci è forse dato dalle maschere Dan, nelle quali il gioco tra lo schema formale di base e la partecipazione interpretativa dell’artista è vivacissimo e sempre ricco e aperto a nuove declinazioni, e dove l’elemento qualitativo svolge un ruolo determinante: senza, con questo, dimenticare il fatto che le macrovarianti di questo stile (il tipo con gli occhi chiusi e il tipo con gli occhi circolari aperti) appartengono anch’esse alla tradizione e non all’interpretazione. Più generalmente invece il concetto di qualità funziona in accezione negativa, ed è l’etnografo, più che lo studioso d’arte, a dovere interessarsi di questi manufatti. C’è un’arte africana che può essere cupa e disperata, ma è soprattutto povera, senza tramite di comunicazione con la radice ideale che è sempre presente nell’arte maggiore.
(…)
La grande arte dell’Africa Nera non è arte primitiva. Il primitivismo e stato una categoria essenziale del nostro Novecento: una categoria a prescindere dalla quale non si può neppur cominciare un discorso; ma se al primitivismo è stata necessaria la scoperta dell’Africa Nera, non per questo è primitiva l’arte africana. Come possono essere primitive una testa o una maschera Fang nelle quali il processo di resa formale è tra i più elevati nella fenomenologia dell’arte di ogni tempo e di ogni popolo? Come può essere primitiva una maschera Punu in cui, al di là della tipologia stilistica, l’intensità spirituale e psicologica non chiede ulteriore perfezione? L’arte negra accelerò la liquidazione ultima dell’Ottocento che a quel punto era necessaria. L’Ottocento naturalista non era stato annullato, bensì sublimato nell’impressionismo; l’incontro con l’Africa fu quello di una cultura, la nostra, che trasferiva nella propria arte solo ciò che aveva davanti agli occhi, con un’altra cultura di segno opposto, che, come abbiamo detto, rappresentava solo ciò che non si vedeva. E si penso che quest’altro modo di fare arte dovesse essere primitivo solo perché l’Ottocento borghese si era espresso attraverso l’estremizzazione del tecnicismo. Fu certo un equivoco. Non si capi che l’arte negra era semplicemente un’arte religiosa, mentre l’arte europea aveva completamente perduto il senso di quel valore. Ma proprio per questa disparità di potenziali ci fu la scarica elettrica essenziale all’arte nostra; e fu anche per l’intelligenza dell’arte africana, se si cominciò a capire che quello che non ci somigliava non per questo rientrava automaticamente sotto il concetto di brutto.
Oggi possiamo dire che proprio la bellezza intatta di quest’arte stabilisca con noi contatti più profondi e ci dia la prova di una verità che non alberga certo nei musei sperimentali d’arte moderna e contemporanea; e tuttavia quest’arte ha il diritto di essere capita e conosciuta in sé, secondo i suoi principi. Snobisticamente mi piaceva asserire che la scultura negra fosse la vera scultura moderna. Oggi non lo direi più: mi sono reso conto che quest’arte si colloca in un tempo che ha preceduto il crepuscolo degli dei. È là che bisogna raggiungerla procedendo a ritroso; non vale proiettarla in avanti misurandola al nostro intellettualismo, ai nostri parametri avanguardistici. Ritroveremo cosi la lingua che si parlava nel paradiso terrestre, e ci meraviglieremo nel constatare che tale lingua è già dotata di strutture grammaticali solidissime e di aspetti di pura espressività nei quali ogni grammatica sembra dissolversi. Finiremo allora per riconoscerci in questa diversità, per riscoprire radici che credevamo essiccate. Ma la nostra esperienza non sarà monocorde: all’alba della creazione l’uomo disponeva già di tutte le chiavi estetiche che sono ancor oggi in vigore nel nostro decrepito sistema: dalla classicità più gentile alla violenza espressionistica.
L’arte africana e, nelle sue manifestazioni, unitaria e molteplice. Come dicevamo, ristabilisce intorno a noi il silenzio, ma dentro di noi insinua interrogazioni urgenti che ci coinvolgono direttamente. Da dove veniamo, a che punto siamo della nostra vicenda? Non sarà forse che questo contatto ristabilito tra un mondo che finisce e un mondo che restò allo stato nascente significhi che veramente è compiuta la “plenitudo temporum” che ci è toccata in sorte?

Teke. Feticcio “butti”, 1928.

Igbo. Maschera “nwabogho ehi”, 1930/1939,

Luba. Singiti e sgabello a cariatide, 1887.

Ika. Staff “uruxhe”, 1930/1939.

Igbo. Maschere cerimonia “mmanwu”, 1914.

Nkporo. Maschera “ogwu”, 1930/1939.

Item. Maschera “lugbulu”, 1930/1939.

Vili. Feticcio “n’kozzo” o “kozo”, 1910.

Mende. Maschere “bundu”, 1910.

Vili. Feticcio “nkonde”, 1916.

Ngangela. Maschera, 1930.

Teke. Feticci, 1906.

La forma selvaggia (Part. I )

a cura di Giorgio Rusconi, grande amico appassionato e conoscitore delle Arti Africane. Grazie Giorgio.

Tuttavia, al cospetto della scultura africana,
va abbandonata la paura di essere profani…
ci si deve lasciare catturare dal suo fascino.
Bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla.
Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni,
consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi.
Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali.
Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere,
lasciarsi prendere dalla magia.
 

Jacques Kerchache

La pagina è dedicata all’arte tribale africana sub-sahariana, ovvero arte dell’Africa Nera. “Forma selvaggia” perché ho sempre limitatamente inteso il termine “selvaggio” nella sua accezione positiva, intrigante, stimolante, e nello specifico artistico non riferibile a “tribale” o “primitiva”, come purtroppo l’arte africana (e non sola) venne e viene tuttora definita dal suprematismo culturale euro-nordamericano. Quindi, per me, nulla di dequalificante o riduttivo, come potrebbe erroneamente far ritenere il titolo della pagina, tutt’altro.
Ne consegue “selvaggia” quale forma espressiva al di fuori delle regole e dei canoni culturali e stilistici classicisti, travalicante inconsciamente gli equilibri rappresentativi formali dominanti, matrice di una creatività artistica profondamente distintiva e peculiare, che nei primi anni del ‘900 influenzò concettualmente, talvolta modificandola strutturalmente, l’arte europea.

Nelle pagine interne, troverai raffigurate opere della mia piccola collezione, con foto e testi esplicativi d’ordine generale e analitico. Collezione costituita non solo da sculture definibili d’arte o d’epoca, ma anche da oggetti o sculture aventi mero interesse e valore etnoantropologico, così qualificabili in quanto essere stati realmente utilizzati come rituali oggetti di potere o oggetti di cultura materiale.
I manufatti sono elencati al termine della presente introduzione per indice suddiviso dalla cultura di provenienza e dalla denominazione originale (ove recuperata) dell’opera: scorrilo e ove ti intriga la cultura o ti attragga il nome, clicca e avrai accesso alla visione delle opere. In calce all’elenco potrai trovare, dettagliate per argomento, dissertazioni comparative tra culture aventi oggetto alcune tipologie delle opere in collezione che ritengo siano utile approfondimento.

Per alcune opere, sono riportati commenti, studi e contributi di Louis Perrois, Raoul Lehuard, Constantine Petridis, Gigi Pezzoli, Bernard De Grunne, Pierre Dartevelle, Helene Leloup, Suzanne Preston Blier, Ann de Pauw, Gabin Djimasse, Ihediwa Nkemjika Chimee, Marc Leo Felix, Annemieke Van Damme, Philippe Guimiot, Boureima Diamitani, Boris Kegel-Konietzko, Adrien Munyoka Mwana Cyalu, Marie Louise Bastin, Ohioma Pogoson, Arthur P.Bourgeois, Bruno Claessens, Alain de Monbrison, Alain Lecomte, David Serra, Helene Leloup, Beppe Berna, Adjos Togbé Gakpangan, P.Didier Claes, Olivier Larroque, Alain-Michel Boyer, Massimiliano Delpero, Marc Ghysels.

I testi autorevoli riprodotti dovrai considerarli, se profano del tema, una illustrazione parziale e interpretativa personale/temporale dell’arte succitata: parziale perché l’argomento è di ampia e molteplice analisi interdisciplinare, interpretativa personale/temporale perché quanto riportato è frutto di singole opinioni e convinzioni correlate alla datazione delle stesse. Ciò per rimarcare che diversa angolazione dottrinale, diversa lettura autoriale, diverso momento storico, possano avere conseguente diversa argomentazione.
Occorre comunque tenere presente l’estrema complessità, e talvolta impossibilità, del fruitore, anche esperto, di opere, estraneo alla cultura di produzione delle stesse, a definirle, valutarle, contestualizzarle nella loro interiore spiritualità, nella individuazione del rapporto tra significato e significante.
Nella pagina introduttiva, tra citazioni e scritti, sono riportate immagini d’epoca di maschere, feticci, statue.

Songye. Il re Kuba Kot aPe con feticci “mankisi” di comunità in Nsheng, 1911.

Fang. Reliquiari “byeri”, 1914.

Abiriba. Tamburo, 1930/1939.

Vili. Feticci “nkonde” e “n’kozzo” o “kozo”, 1902.

Ibibio. Altare “juju”, 1915.

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

Igbo. Maschera “mgbedika” o “agaba”, 1930/1939.

Yaka. Feticci “biteki”, 1906.

Igbo. Statua “ikenga”, 1930.

Songye. Feticci “kashashwiim”, “mweeny”, “mutwoon” e “tshikudi”, 1910.

Ikwerri. Maschera “abam”, 1930/1939.

Songye. Feticcio “Tombwe”, in Kabashilange, 1922.

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

Vili. Feticci “nkisi”, “nkobi e oggetti di potere, 1909.

Baga. Maschera “sa sira ren” e altra sconosciuta, 1947.

Un percorso iniziatico. Jacques Kerchache, 1998.


La passione per l’Africa mi ha spinto, senza che avessi predisposto in anticipo un piano sistematico, nel cuore del Gabon, mi ha condotto dal Congo alla Guinea equatoriale, dalla Costa d’Avorio alla Liberia, mi ha portato dal Burkina Faso al Mali, dall’Etiopia al Benin, dalla Nigeria al Camerun e dalla Tanzania allo Zaire. Da queste esperienze talvolta ardue, certamente fisiche, ma soprattutto intellettuali e spirituali, dalla mia partecipazione ad alcune cerimonie e a diverse manipolazioni di oggetti, dalla mia immersione temporanea, ma reale, nei culti vudu dell’ex costa degli Schiavi, non posso oggi esprimere che delle sensazioni, delle impressioni. Mi asterrò perciò, da qualsiasi affermazione.
Tuttavia, al cospetto della scultura africana, va abbandonata la paura di essere profani e ci si deve lasciare catturare dal suo fascino; bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla. Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni, consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi. Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali. Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere, lasciarsi prendere dalla magia.
Anche se non possiamo contemplare questa scultura che attraverso i suoi frammenti, questi sono ancora abbastanza significativi per esprimere un alfabeto di segni fondamentali, di matrici, al quale l’uomo moderno, nella sua necessaria ricerca di universalità, può e deve attingere. In questa fine del XX secolo, potrebbe essere pericoloso trascurare l’apporto delle “arti prime” e nel contempo ultime; sono questi gli antenati del futuro. Lo scopo delle arti africane non è di insegnarci una certa ideologia, ma di indurci a osservare in maniera diversa. Ci si deve guardare dal sottile razzismo che sostiene la necessità di essere africani per capire questa scultura, atteggiamento esotico non più accettabile.
(…)
Altra raccomandazione: l’arte africana non deve essere avvicinata attraverso la prospettiva delle date. In primo luogo, qualunque sia la cultura osservata, l’età di un’opera non è mai garanzia della sua qualità, le produzioni minori, rozze e povere abbondano qui come nelle culture greco-romana, egizia, asiatica, francese del XVIII o del XX secolo. In secondo luogo, vanno superate le analisi (etnomorfologiche, quantitative e matematiche) effettuate da numerosi ricercatori. Potreste concepire di misurare le sculture del Benin o di Picasso per determinarne l’originalità, l’emozione o la magia? E perché servirsi di oggetti -senza guardarli veramente- come pretesto nella determinazione di una teoria della società? In realtà, la bellezza di una scultura non è estranea alla sua funzione sociale, come pure il suo ruolo rituale o magico non impedisce ai suoi fruitori di apprezzarne la bellezza. Più un oggetto riveste una funzione importante, più le sue qualità estetiche sono evidenti; uno stretto legame unisce funzione e bellezza, la prima regge l’altra favorendone lo sbocciare, la seconda magnifica la prima esaltandola. Prima di tutto, va evitato di fissare in un’unità tribale un insieme di oggetti, o, al contrario, di disgregarla.
Contrariamente a quanto alcuni “etnologi” vorrebbero farci credere, l’Africa non vive in un eterno presente. Non esiste un’unica concezione della storia. Qui, come altrove, le abitudini sono cambiate, si sono evolute e lo stesso vale per la scultura. Tanto più che, secondo l’origine clanica o familiare dell’informatore sul terreno, la statua avrà dei significati diversi e l’omogeneità del gruppo osservato sarà instabile quanto le attribuzioni. Cambiando il mito, cambierà anche l’interpretazione di esso. In questo ambito nulla è mai definitivo. In Africa un oggetto è fluido quanto il verbo e le sculture sono il supporto della parola. Ma nulla vi impedisce, al cospetto di una scultura di qualità eccezionale, che fornisce una versione originale del mondo, di percepire la volontà dello scultore di estrinsecare un’idea.

Kota. Reliquiari “mbulu-ngulu”, 1908.

Scultura, dimensione, parola.
Le opere a carattere naturalistico, come le teste di Ife, vi saranno più accessibili, poiché esse agiranno sulla vostra tonalità culturale, visiva, sensuale, tattile. Sono certamente dei capolavori, ma costituiscono una sola varietà nell’enorme gamma di soluzioni plastiche proposte dalla scultura africana. Frobenius, scoprendo queste teste nel 1910, le ha immediatamente collegate alla Grecia, nella convinzione di aver ritrovato Atlantide. Juan Gris, invece, dichiarò in “Action”, nell’aprile 1920, a proposito dell’arte africana: “È all’opposto dell’arte greca che si basava sull’individuo per cercare di suggerire un tipo ideale”. E aggiunge: vederla unica, significherebbe uccidere l’arte greca. Le opere di Ife sono totalmente africane; se le osservate con attenzione, potrete constatare rapidamente che non è possibile confonderle con nessun’altra scultura al mondo.
Ma davanti all’arte africana, più sarete aggrediti e sconcertati, più dovrete stare attenti: non temiate l’emozione, lo shock. Prima di esprimervi non cercate la firma o la data. Attitudine -che J.M. Drot stigmatizza- del pensiero sistematico e classificatore del mondo occidentale. Le sculture africane non hanno firme e sono al di fuori della nostra cronologia. Valutate con i vostri occhi: “L’occhio deve esplorare la superficie, assorbirla pezzo per pezzo e consegnarla al cervello che immagazzina le impressioni e le costituisce in un tutto. L’occhio segue i percorsi che gli sono stati predisposti nell’opera” (P. Klee). Avvicinatevi a ciò che potete sentire, cogliere, come la sensualità contenuta nella scultura africana e non pensate in termini di espressionismo, di cubismo o di realismo, non crediate che una maschera rida o pianga. Non lasciatevi sedurre da materiali come l’oro, il bronzo, le patine laccate, altrimenti restereste confinati nel “catalogo delle opinioni chic”.
C’è anche un momento di percorso intorno a una scultura tridimensionale, indispensabile alla sua comprensione. Essere attivi davanti a una statua, forse, vi sarà più difficile in quanto noi oggi viviamo nel bidimensionale, nel regno delle immagini e questo modifica la nostra percezione della scultura. Essa è sempre più assente da ciò che ci circonda, ad eccezione della sua presenza sottoforma di “monumento mortuario” o di supporto architettonico. E’ dunque opportuno esercitare l’occhio per poter scoprire in questa vasta produzione artistica, in questo labirinto, i tempi forti, i segni conduttori altrettante espressioni originali della potenza creatrice e della maestria tecnica.
(…)
La scultura africana è, in generale, di piccole dimensioni, supera raramente il metro, ancora più raramente il metro e ottanta. Tuttavia, questo non le impedisce di esprimere una certa monumentalità. Le proporzioni derivano dalla sua manipolazione e dal suo uso all’interno delle strutture nelle quali appare. Quando la statuaria aveva un ruolo davvero collettivo, doveva e poteva essere vista da tutti: è il caso della funzione architettonica. Tuttavia, anche in queste circostanze, la si ritrova raramente in Africa; chefferies bamileke, palazzi bamum, templi yoruba. Sculture di grandi dimensioni esistono in certi siti funerari, come presso i Konso-Gato d’Etiopia, i Bongo del Sudan, i Giriama del Kenia, i Sakalava e i Bara del Madagascar, o con funzione di protezione del villaggio, clanico o familiare, come i “bochio” dei Fon del Benin.
(…)
Contrariamente alle sculture, la maschera, il cui uso è spesso accessibile a tutta la collettività, per lo meno maschile, può svilupparsi a piacere nelle grandi dimensioni, come presso i Dogon, i Mossi, i Baga, ecc. Può addirittura essere “sovradimensionata” dai suoi portatori, ritti su trampoli, come presso i Dan della Costa d’Avorio o i Punu del Gabon. La scultura tridimensionale africana, come nel resto del mondo, è apparsa con la sedentarizzazione, quando il dominio della tecnica agricola ha permesso alle tribù nomadi di stabilirsi in un certo luogo: questo si constata in tutto il Medio Oriente, nel bacino mediterraneo (Cicladi, Malta, Cipro), in Cina, nel bacino del Danubio (Romania, Cecoslovacchia) e in Africa, lungo il Niger, come confermato dai lavori di J.P. Roset. Questa tecnica viene scoperta o trasmessa in maniera piú o meno lenta e sfocia in un insieme di dati come la scrittura, la città, lo stato, l’esercito e l’architettura. Queste società di agricoltori-cacciatori-pescatori, più o meno guerriere a seconda delle circostanze, produrranno una scultura tridimensionale generalmente molto piccola e assai vicina concettualmente, e comunque sul piano estetico, alla scultura africana. Tutte queste statuette dimostrano nella strutturazione delle loro forme, dei loro volumi, nella precisione delle linee ridotte all’essenziale, il rifiuto della copia naturalistica, e raggiungono un alto grado di invenzione.
Per contro, ovunque l’uomo si muova, presso i cacciatori-raccoglitori o i nomadi-allevatori (Pigmei, Boscimani, Ottentotti, Peuls, Masai, come pure gli aborigeni australiani o gli Indiani delle pianure), la scultura tridimensionale non esiste, sebbene ciò non impedisca a queste societá di esprimersi in maniera altrettanto appassionante in altri ambiti quali le arti del corpo, la pittura rupestre, i disegni sulla sabbia, le incisioni sulle zucche, gli ornamenti in cuoio, i tessuti, la coreografia, la musica, la danza e il canto, i miti. Quando l’uomo si muove, si porta dietro l’essenziale…
E’ a questo punto del percorso, caratterizzato dalla comprensione e dall’apprezzamento, che è opportuno ricollocare l’opera nel suo ambito socio-culturale: ecco che allora gli etnologi e i linguisti consentono di capire meglio il contesto delle invenzioni stilistiche e meglio interpretarle. Tanto più che da una regione all’altra, da un insieme culturale a un altro, la statua può rivestire un significato totalmente diverso. Al contrario, “la stessa funzione può essere esercitata da molte forme diverse e, inversamente, una sola forma può esercitare molte funzioni diverse” (J.L. Paudrat). Presso i Senufo, pochi segni consentono di distinguere la tal maschera che invita le donne all’adulterio da quell’altra maschera che invece ne condanna la pratica.
Le società definite “primitive” non utilizzavano la scrittura, e questo ha suscitato il disprezzo con il quale sono state avvicinate. È il caso di ricordare che ancora nel 1898 si poteva leggere, per mano di André Michel, ne “La Grande Encyclopédie”: “Presso i negri, che tuttavia sembrano, come tutte le razze dell’Africa centrale e meridionale, molto arretrati per quanto concerne l’arte, si trovano degli idoli che rappresentano uomini e riproducono con grottesca fedeltà i caratteri della razza negra”. Le tradizioni orali, lo si è capito ora, suppliscono alla scrittura la cui mancanza non significa un’assenza di cultura, ma piuttosto un rifiuto cosciente e deliberato da parte dei saggi per evitare di trasformare le variazioni del mito in un dogma immutabile.
Per di più, l’Africa è in contatto permanente, in modo più o meno burrascoso, con l’Islam dall’ VIII secolo. Ne consegue ovviamente che esistono numerose affinità tra l’Islam nero e l’Africa tradizionale, con avvenimenti vissuti in comune che si ritrovano più o meno differenziati nei miti e che appaiono nell’estetica. Il cavallo, ad esempio, simbolizza il tempo del contatto con l’Islam galoppante; incorporato nella cosmogonia dei popoli del delta interno e dell’ansa del Niger, rappresenta la necessita di trovare il tempo delle parole nuove e di prendere nuove decisioni. Ma l’islamizzazione di Djenné verso il 1043, lungo il fiume Niger, non impedirà alla produzione artistica di svilupparsi in tutto il bacino del fiume; e non influenzerà neppure i Dogon del Mali, zona in cui l’impero songhai raggiunge il suo apogeo nel XV secolo. Si trovano villaggi in cui vivono in comunità Peuls, Dogon, Bamana. Popoli come gli Edo e gli Yoruba della Nigeria resistono alle pressioni dei Fulani o degli Haussa islamizzati. Tuttavia, lo spirito di astrazione e di geometrizzazione dell’Islam ha certamente giocato un ruolo sottile nell’ambito della produzione delle maschere come pure nell’ambiente. Ma la penetrazione fu senza dubbio assai tollerante e, anche se il Corano proibisce qualsiasi rappresentazione umana, l’Islam in Africa può aver mirato alla distruzione degli idoli, ma non ha mai pensato di distruggere la scultura. Con una ridda di “Islam regionali”, di contatti evolutivi tra l’VIII e il XIX secolo, ci si può chiedere se non sia stata l’Africa a “rendere negro” l’Islam.
La tradizione orale africana non si limita a raccontare di fondazioni, di emigrazioni, di lotte contro gli invasori, ma ingloba anche tutti gli aspetti della vita. E’ una scuola che comprende la religione, la conoscenza e le scienze della natura, l’iniziazione a un mestiere, la storia, i divertimenti: coinvolge l’uomo nella sua totalità. Si deve imparare a decifrare la scultura, supporto della parola e del mito in evoluzione permanente. Questa parola e talvolta di origine divina e presenta un carattere sacro. Secondo la mitologia dogon, “i primi uomini erano privi di parola, incompiuti, aridi infelici” non potevano compiere alcun progresso, poi Binu Seru ricevette un insegnamento dall’antenato Nommo durante un incontro. “Il loro sistema di vita ne fu trasformato; da raccoglitori di frutta divennero coltivatori, la parola li rese attenti ai fenomeni atmosferici e permise loro di regolare il calendario agricolo”. (G. Calame-Griaule, Ethnologie et Langage, la parole chez les Dogon).
Presso i Bamana, il verbo è creatore e possiede la duplice funzione di inventare e di distruggere. L’importanza delle parole si ritrova ovunque in Africa; da queste derivano i canti rituali, le palabres, le discussioni, gli incontri e, di conseguenza, i mercati. Attraverso le parole si trascorrono il tempo delle feste, il tempo sacro, e, periodicamente, il tempo in cui avvicinarsi agli spiriti. Tutti questi tempi sono resi ritualmente presenti attraverso la parola visualizzata, materializzata in certuni oggetti. Per esempio, nella glottide delle statue impiegate soprattutto da uomini (glottide, elemento fisiologicamente più sviluppato negli uomini) o nelle bobine dei telai. Il tessitore africano non dice: “la navetta tesse la parola”. Si può ritrovare questa parola rappresentata da una bocca smisurata, da una lingua appariscente tra le labbra o da una lamella in ferro sporgente dalla bocca di un bastone di comando o da interprete.
Presso gli Africani, l’universo è concepito come un fragile equilibro tra due forze, la cultura, ordine delle istituzioni sociali e la natura, disordine incontrollabile che passa dalla fertilità attraverso la crescita fino alla morte. Giustamente, la scultura africana rappresenta un elemento di questa coesione sociale, mediante la sua presenza nei diversi ambiti come quello socio-politico, magico-religioso o guerresco. Nella maggior parte delle società, la religione e la politica sono strettamente legate; sono in effetti i vecchi, i “nonni”, gli uomini della classe di età superiore, giunti ai gradi di iniziazione più elevati a prendere le decisioni che riguardano la vita della comunità.
Questa lunga iniziazione formatrice termina tardi dato che un uomo viene considerato adulto, secondo il filosofo Hampaté Ba, dai Bamana e dai Peuls, a quarantadue anni e che non tutti raggiungono questo livello. Ancora un volta, è una questione di parola: per raggiungere questo grado di iniziazione, bisogna saper porre le domande giuste. E, di nuovo, la scultura dà il cambio alla parola: sebbene “in generale, le sculture africane non rappresentino i loro soggetti a un’età particolare” (W. Fagg), la barba, indice di classe di età, di saggezza, di virilità, di capitale-memoria e di conoscenza, si ritrova su un gran numero di statue e di maschere. La visualizzazione di questa barba è manifesta in tutta la scultura africana mentre non la si ritrova che assai raramente nel paleolitico e praticamente mai nel neolitico: unica eccezione, la statua di Beer Safad (4000 a.C.), trovata in Israele, che presenta una serie di buchi di attacco attorno al viso, che permetterebbero, come nella testa di bronzo di Ife di Obalufon, l’apposizione di una barba posticcia; ma questo resta una supposizione. La barba, simbolo concettuale della saggezza degli anziani, guardiani essi stessi della tradizione orale, si materializza nella statuaria. In Africa, la scultura è la parola divenuta forma.

Vili. Feticcio “nkonde”, 1916.

Gli oggetti di superficie.
Gli oggetti rituali, maschere, statue, mobilio, utilizzati in superficie rivestono, nella società africana tradizionale, un ruolo molto più importante degli oggetti funerari, destinati ad essere sepolti. Va aggiunta una piccola quantità di pezzi dal duplice impiego -parure e mobilio sacro che accompagnano il morto nella tomba- come a Igbo-Ukwu in Nigeria, o certuni oggetti funerari trovati fortuitamente e riutilizzati in superficie, come presso i Kissi in Guinea, quelli della cultura nok o della cultura owo in Nigeria.
In Africa gli spiriti sono presenti ovunque. Un uomo diventa spesso più importante dopo la sua morte che in vita. I segni di superficie funzionano da esempi e sotto esempi, in uno stretto rapporto tra il ruolo che essi hanno e quello dei loro manipolatori; esistono oggetti collettivi (spesso le maschere), semi collettivi (ancora le maschere e una piccola parte della statuaria) e quelli -in particolare statuette- riservati ai saggi, memoria vivente della comunità. Questi ultimi riattualizzano continuamente gli oggetti nelle relazioni che essi intrattengono con il mondo esterno (avvenimenti storici, contatti con l’Islam, il Cristianesimo, migrazioni, guerre, alleanze) e il mondo interno (spiriti, morte, sogni). Attorno alle funzioni e agli usi, si stabiliscono dei sistemi di manipolazione ciclica estremamente complessi e di protezione.
Potreste trascorrere la vostra vita in Africa senza avere la possibilità di vedere una statua in funzione; esse sono celate non solo al forestiero, ma anche a gran parte della comunità. Griaule, con la Scuola francese di etnologia, nel corso di circa mezzo secolo di presenza, ha potuto accedere solo in rarissime occasioni alla statuaria dogon sacralizzata. I membri del gruppo hanno visto delle maschere (collettive), delle sculture sconsacrate, sono stati perfino lo spunto per la creazione di nuovi supporti, come la maschera Madame o la maschera etnologa.
Dal XVIIl secolo ai nostri giorni, si osserva così, nell’iconografia dei racconti di viaggio, l’apparizione di armi, strumenti musicali collettivi, mobilio, parure, e alcuni rarissimi documenti più interessanti: mostrano un Africano che ha appena ricevuto un calcio nel sedere, circondato da statue per dare all’immagine una dimensione feticista. E non dimentichiamo l’ultimo arrivato… la maschera fatta per il turista. In realtà, la maggior parte di questi “trompe-l’oeil” permette di dissimulare la scultura sacralizzata e l’attitudine degli utenti di fronte a questa statuaria. Questi ultimi si comportano nei riguardi di ogni statuetta come verso un individuo. In Africa, esistono ancora numerose statue nascoste che riappariranno solo quando non avranno più alcun interesse per i loro manipolatori. Poiché beneficiano di un sistema di protezione elaboratissimo.
La preparazione di un segno di superficie inizia dalla scelta del materiale (qualità dell’essenza dell’albero), dal momento in cui l’albero sarà abbattuto, dalle tecniche di ammollo (palude, fango) e dalla miscela delle patine (olio, miele, cera d’api, fumo, pittura), e prosegue con i sacrifici rituali (sangue, birra di miglio). Infine intervengono l’ubicazione (tempio, altare familiare, grotta, granaio, cassa), l’involucro (spesso pacchetti di tessuto enormi in rapporto alla dimensione dell’oggetto) e la manutenzione; certuni uomini possono esserne responsabili a costo della loro stessa vita. Può succedere che durante lo svolgersi di avvenimenti particolarmente turbolenti, come durante gli anni Sessanta nel Camerun, per la rivolta dei Bamileke, i re affidino i loro oggetti sacri a notabili residenti assai lontano dalla loro chefferie.
Anche la preparazione di oggetti sostitutivi fa parte dei sistemi di protezione: cioé la rapida fabbricazione di una statua non sacralizzata, a beneficio dei missionari, degli amministratori o degli etnologi di passaggio. Il complesso di superiorità di queste persone impediva loro di immaginare, anche per un solo istante, che gli Africani si fossero presi gioco di loro. I missionari reclamavano gli idoli e, durante la notte, gli Africani, divertendosi, fabbricavano un oggetto sostitutivo. Il giorno dopo essi consegnavano la loro vergine di “Saint Sulpice” pur conservando l’autentica vergine “romana”; allentavano così la pressione. Questa pratica continua. Molte volte, dopo notti di trattative, i Neri mi hanno presentato, accompagnato da tutto un cerimoniale, un enorme pacco contenente una maschera o una statua. Dicevo loro: “L’avete fabbricata questa notte, mi prendete per un bambino?” Scoppiavamo tutti a ridere stabilendo cosi una relazione di complicità magica. Quanti turisti sono stati svegliati, presso i Dogon, nel pieno della notte e trascinati, uno dopo l’altro, in una capanna da un anziano che presentava loro con mille precauzioni la porta di un granaio degli antenati. L’indomani, nel loro veicolo, avevano tutti la medesima porta, falso oggetto con riparazioni tradizionali. Tutti questi sotterfugi per dissimulare l’esistenza degli oggetti veri e assicurarne cosi la conservazione.

Fang. Gioco per giovani iniziati “mala’n me bo’ngo”, 1912.

Morte degli oggetti di superficie.
Non parlerò della distruzione causata da cataclismi naturali o dalle termiti o dai roditori, circostanze che si verificano quando gli oggetti sono sconsacrati e abbandonati. Essi perlopiù vengono distrutti dagli stessi fruitori. Nel 1889, il padre Noel Baudin si stupiva: “In uno dei primi anni del mio soggiorno sulla costa degli Schiavi, il nostro vicino, noto fabbricante di feticci, era morto ed erano stati messi fuori dalla sua capanna tutti i suoi feticci (…) io chiesi ai Neri come mai trattassero in questo modo i loro dei. Essi affermarono che i loro dei non erano più li, e quindi tutte le statue e gli altri loro simboli, ormai inutili, erano stati buttati fuori dalla capanna”. Spesso ho visto bambini giocare con delle belle sculture, presso i Fang del Camerun meridionale, o, ridendo, porsi una maschera sulla testa. Questi oggetti, qualunque sia la loro autenticità, il loro ruolo passato e la loro qualità plastica, non avevano più alcun significato per la comunità.
Una maschera può anche essere fabbricata in occasione di una cerimonia particolare, come le maschere “cikunza” presso i Tschokwe, e poi venire distrutta all’indomani del suo utilizzo. Altre vengono buttate perché rovinate durante una manipolazione. Certi oggetti rispondono negativamente ai loro utenti e spariscono. Senza contare le maschere o statuette in erba, fango, fogliame; materiali effimeri, e dunque deperibili.
Ma sui segni di superficie pesano anche le decisioni politiche o religiose. Numerosi esempi possono illustrare questo genere di distruzione. Verso il 1400, a seguito di un conflitto, un lignaggio lasciò la città santa di Ife e si stabilì tra questo luogo e Benin. Le terrecotte di Owo, meravigliose nella loro delicatezza e, in Africa, uniche nella loro concezione, verranno distrutte due generazioni più tardi dall’esercito del Benin. Durante la conquista del territorio edo da parte degli Yoruba, interi villaggi con tutti i loro oggetti vennero annientati. Nel 1897, il vice console inglese espresse il desiderio di far visita al re del Benin durante le cerimonie dell’Igue. Quest’ultimo rifiutò poiché, durante questo periodo, egli era (considerato) invisibile. Questo fatto scatenò la spedizione punitiva degli inglesi contro la città e il saccheggio di circa quattromila oggetti. Venduti a Londra l’anno successivo, essi si trovano attualmente per la maggior parte al British Museum, al museo di etnologia di Berlino e in numerose collezioni pubbliche e private.
Vanno aggiunte le distruzioni operate dagli eserciti coloniali, la soppressione di migliaia di segni di superficie durante la guerra del Biafra da parte degli Haussa, del capo Mukeenga Khalemba presso i Bena Lulua, i bombardamenti di Kadhafi su Djamena, cbe hanno portato al saccheggio del Museo nazionale, all’incendio della biblioteca e alla distruzione dei siti archeologici limitrofi. Si possono anche ricordare i saccheggi provocati dalla propagazione dell’Islam, gli autodafé dei missionari, le pratiche dei culti sincretici: il culto “mademoiselle” tra il 1940 e il 1964 in Gabon e in Congo; il culto di massa presso i Senufo nel 1953; lo Spirit Movement tra il 1920 e il 1930 in Nigeria. E, per finire, citiamo le raccolte sistematiche dei grandi musei etnografici, la vendita da parte degli stessi Africani di certi pezzi per rispondere alla crescente richiesta. “In Camerun, al momento dell’indipendenza, apparvero sul mercato delle “arti primitive “autentici pezzi antichi, spesso molto importanti, venduti a cifre assai elevate dagli stessi monarchi d’accordo con i loro notabili.” (P. Harter)
Non possiamo, ovviamente, correggere il passato: tuttavia, è in nostro potere evitare altri disastri. Se non ci fosse stato l’interesse di artisti e di poeti come Picasso, Matisse, Derain, Apollinaire, Féneon, e quello di mercanti e di appassionati di arte africana, quest’ultima non avrebbe ora il posto che occupa nel patrimonio culturale dell’umanità. Gli Africani, per il momento, non si interessano in questo modo ai loro oggetti (non conosco del resto un solo amatore di arte nera in Africa). Tuttavia l’avvenire del patrimonio archeologico africano situato nel sottosuolo appartiene a loro. Lasciamo decidere agli Africani quale sviluppo vorranno consentire alla museografia del loro paese; restiamo semplicemente a loro disposizione per collaborare, se essi ce lo richiederanno, nella realizzazione, ad esempio, degli scavi scientifici, come quelli di T. Shaw a Igbo-Ukwu in Nigeria. Sforziamoci soprattutto di nobilitare lo sguardo che posiamo sulle arti nere.

Yombé. Feticcio, 1906.

Abiriba. Vassoio, 1930/1939.

Kongo. Maschere, 1910.

Ibibio. Maschere “ekpo”, 1905.

Woyo. Feticcio “nkonde”, 1902.

Igbo. Danzatori “kwoho”, ca.1900.

Songye. Feticcio “nkisi” con il suo guardiano “kunca o nkunja”, 1913-1916.

Igbo. Statua “alusi”, 1930/1939.

Igbo. Statue “ikenga”, 1916.

Igbo. Maschera “otili”, 1931.

Ika. Altare portatile, 1930/1939.

Songye. “Minkisi” di comunità, ante 1940.

Songye. “Minkisi” di comunità, villaggio confluenza fiumi Lubengule e Lomami, 1927-1934.

Baga Sitemu. Tamburo rituale “timba”, ca.1930.

Luba. Maschere, statue e “kitumpo kya muchi”, 1900-1910

Il sultano ed il colono

Maschera antropomorfa, tu nkum, etnia Bamum, Camerun, Legno, perline vitree, h. 92,0 cm. Museé du quai Branly – Jacques Chirac (inv. 71.1935.6.1)

Il Camerun in epoca coloniale, prima tedesca, poi inglese e francese, era una costellazione di piccoli reami, tra i quali, i più importanti dell’area centro-occidentali, quelli dei Bamum e dei Bamileke. Pur con elementi comuni, riconducibili all’organizzazione sociale delle chefferies, ognuno dei molti gruppi etnici aveva sviluppato peculiari stilemi artistici. Questa grande maschera antropomorfa Bamum, denominata tu nkum, ricca di eterogenei materiali, quali rame, tessuto e perle di vetro, era indossata durante la celebrazione della festa del nja ed apparteneva all’arte di corte per la quale lavoravano tutti gli artisti. La maschera, fotografata in situ nel 1912 dal Rudolf Oldenburg, si caratterizza stilisticamente per la presenza di un’acconciatura/copricapo con la foggia di una mitria, ornata da quattro lucertole bicefale, proprie dello stigma di corte. La maschera era completata da un imponente costume di tessuto e rafia, che la rendeva protagonista della scena durante le cerimonie. Come la maschera, l’intera arte dei Bamum era sostanzialmente un’arte nata al servizio del potere regale fin dal XVI secolo.

Oggetto rituale peculiare di questa etnia camerunense era un corno animale che, una volta svuotato, era decorato ed inciso con significative incisioni dal potente significato simbolico. Il nome etnico di tale oggetto rituale destinato ad accoglire il vino di palma era Ndunyet.

Di seguito sono visibili tre pregevoli esemplari di palm wine drinking horn che hanno una caratteristica in comune. Pur dispersi in collezioni private sono a mio parere opera dello stesso artista e tutti e tre misurano circa 23 cm.

Il vino di palma svolgeva un ruolo sociale e cerimoniale molto importante in molte società dell’Africa occidentale. Nelle praterie del Camerun, una vasta area culturale situata nel Camerun centrale denominata Grassfields, abitata da un certo numero di popoli imparentati tra cui oltre ai Bamun, i Bamileke i Bamenda e i Tikar, il vino di palma era utilizzato durante i funerali, alla celebrazione dei matrimoni, per l’esecuzione di riti tradizionali e come ricompensa dal re o Fon ai suoi fedeli sudditi in occasioni speciali. Le corna di Bamun sono distintive in quanto la loro intera superficie era interamente scolpita. In altre regioni era lavorato soltanto il pannello centrale del corno. L’intagliatore ammorbidiva il corno con applicazioni di tre mani di olio di ricino, acqua e calore per allargare la bocca e ottenere la forma desiderata. Venivano utilizzate sia corna di bufalo che di bovini nani, sebbene le corna di bufalo, più spesse, diventavano la coppa dei dignitari di primo grado. Altri simboli ed elementi pittorici visibili sui corni del Grassfields sono: il ragno di terra, la testa di bufalo, la lucertola, la rana, una rete da caccia, una palma e conchiglie di ciprea ed infine, la figura del dignitario sui corni più importanti. I vasi per bere di corno erano oggetti di prestigio in contrasto con i vasi di zucca della gente comune.

In questo contesto fortemente identitario si colloca un episodio singolare per l’Africa sub-sahariana dove l’assenza della lingua scritta è elemento ricorrente. In realtà, in pieno periodo coloniale, in Camerun, a Fumban, il sultano del regno Bamum, El Hadj Ibrahim Mbomb Njoya (ca. 1885-1923), provò ad ideare ed introdurre la scrittura all’interno della propria comunità.

Il sultano El Hadj Ibrahim Mbomb Njoya e, da notare, la deprecabile supponenza ed arroganza del colono bianco che poggia il suo piede destro sul bordo del trono.
Photo courtesy H. Oldenburg in Arts royaux du Cameroun , Louis Perrois.

Nelle intenzioni del sultano, la scrittura era destinata ad illustrare le vicende dei precedenti sedici reami del suo popolo, narrate fino ad allora dai cantastorie. Njoya intraprese la sua fatica nel 1916 e l’opera fu poi pubblicata nel 1952, (Histoire et costumes des Bamum rédigées sous la direction du sultan Njoya).

Uleriori informazioni sulla peculiare scrittura ideata dal sultano sono visibili in questo lavoro a cui va il mio personale ringraziamento.

https://www.salonecriture.org/r%C3%A9trospective-2017/h%C3%B4te-d-honneur/le-roi-njoya-et-son-%C3%A9criture/

Elio Revera

Il suono della foresta

The Ijo People ((Izon, Ijaw) are the majority inhabitants of the Niger Delta and its outskirts. The ancestors of the Ijo People have inhabited the Niger Delta since antiquity, and the timeframe for settlement is still being researched. The ancestors of the Ijo People settled the Core Niger Delta and specific islands along the deltaic coast. As the people started to spread and migrate through the many islands and waterways they formed various clans and kingdoms as autonomous aboriginal communities. Starting from the 15th Century AD, other people from the hinterlands of the Niger Delta starting settling the delta fringes, due to trade and internal wars. These people settled both the western and eastern fringes amongst the aboriginal Ijo People. They constitute the ethnic neighbours of the Ijos in the Niger Delta.

Ijo peoples reside amid the many estuaries and mangrove forests of the vast Niger Delta. They associate waterways with commerce and wealth, whereas forests are fraught with danger from natural enemies and existential perils.

Courtesy Collection:Musée du quai Branly – Jacques Chirac, Paris, France, Helmet mask cm. 161

In this environment of extremes, benevolent water spirits manifest through masquerades of marine imagery, while fierce and volatile forest spirits dwell in protective shrine figures whose multiple heads and eyes facilitate all-seeing powers.

Forest Spirit Figure, Nigeria, Niger Delta, Ijo culture, 19th century, Courtesy Los Angeles County Museum of Art, gift of the Silver Family and the 2018 Collectors Committee.

Veneration of ancestors plays a central role in Ijaw traditional religion, while water spirits, known as Owuamapu figure prominently in the Ijaw pantheon. In addition, the Ijaw practice a form of divination called Igbadai, in which recently deceased individuals are interrogated on the causes of their death. Ijaw religious beliefs hold that water spirits are like humans in having personal strengths and shortcomings, and that humans dwell among the water spirits before being born.

Courtesy Duende art projects, cm 149 anonymous ijo artist water spirit statue.

The role of prayer in the traditional Ijaw system of belief is to maintain the living in the good graces of the water spirits among whom they dwelt before being born into this world, and each year the Ijaw hold celebrations to honor the spirits lasting for several days. Central to the festivities is the role of masquerades, in which men wearing elaborate outfits and carved masks dance to the beat of drums and manifest the influence of the water spirits through the quality and intensity of their dancing. Particularly spectacular masqueraders are taken to actually be in the possession of the particular spirits on whose behalf they are dancing.

Helmet mask, Courtesy Pace Gallery, N.Y, cm 56

Helmet mask, Courtesy Bonhams, cm. 78

Nell’ambito della cultura e dei rituali Ijo, uno strumento rituale di particolare significato è giunto a noi: si tratta di un rarissimo reperto di questa antica cultura, dal momento che l’archivio internazionale African Heritage Documentation & Research Centre (AHDRC) ne annovera soltanto un altro, oltre a questo.

Courtesy Sotheby’s. Collezione privata.

Il limitatissimo corpus di questi oggetti, suggerisce interpretazioni piuttosto che approfondimenti o conferme intorno al suo utilizzo tradizionale.

Si tratta certamente di uno strumento sonoro, che per semplificazione comunicativa si potrebbe definire come un sonaglio (rattle), mediante il quale gli Ijo ritualizzavano eventi di natura spirituale.

Il rito, per usare parole di Paolo Zellini è “rigorosa esecuzioni formale di azioni e recitazioni in grado, almeno virtualmente, di mettere in contatto il nostro mondo con le potenze celesti. Il visibile con l’ivisibile”.

L’aspetto fisico dello strumento, forse, può fornirci alcune interpretazioni circa la sua funzione sacra e simbolica.

E’ stato scritto infatti, che la vera ermeneutica del dramma o del rito consiste nella loro rappresentazione scenica.

Va pertanto indagato, in prima analisi, il concreto aspetto dello strumento che misura una cinquantina di centimetri.

Ad una prima visione il legno, che è il materiale di cui è fatto, appare ricoperto di una densa, crostosa e profonda patina grigiastra, frutto di prolungati versamenti rituali nel corso di decenni, stante il fatto che questo oggetto risale alla fine del XIX sec. o ancora prima.

La parte superiore dell’ogiva è un volto con la tipica rappresentazione dell’estetica Ijo: gli occhi tubolari, la bocca prominente che mostra i denti, parzialmente ricoperti dalla densa patina.

Interessante il piano inferiore dove sono rappresentati due animali (canidi o felini), posti simmetricamente, ma rivolti in direzione inversa: verso l’ alto l’animale a destra e verso il basso quello a sinistra. Entrambi digrignano i denti ed esprimono un atteggiamento di guardinga ferocia.

Intorno alle figure sono visibili una seri dei fori, destinati forse ad accogliere campanelli, sonagli o altri oggetti sonori. Numerosi di questi fori sono ostruiti da tratti di corda, facenti ormai parte del legno, in virtù della crostosa patina.

Il retro dello strumento, al contrario, è completamente liscio ed il legno non ha traccia di alcuna patina se non quella del naturale invecchiamento. Verosimilmente questo oggetto è stato utilizzato non soltanto come strumento sonoro, ma altresì quale elemento di altare rituale collocato orizzontalmente su di un piano ed asperso con versamenti periodici.

Come detto, la patina spessa e crostosa evidenzia che tale operazione si è prolungata per svariati anni.

Se tale è l’aspetto fisico, l’interpretazione non può che fare riferimento alla cultura Ijo.

Questo popolo che è tuttora sito in riva all’oceano Atlantico, era votato alla cultura dell’acqua ed ai benevoli spiriti che la popolavano e aveva, al contrario, timore e riverenza per tutto ciò che accadeva nella foresta, posta appena alle spalle della litoranea rivierasca.

Feroci e malevoli erano gli spiriti che la popolavano ed è naturale che addentrarsi nella brousse, quando era necessario, costituiva un’impresa non da poco. Ecco che allora lo strumento sonoro poteva svolgere presumibilmente una funzione propiziatoria. Il suono prodotto era forse destinato ad allontanare le forze invisibili ed ostili e ad invocare quelle protettive. Il volto umano della maschera ed i due animali, rivolti con lo sguardo e la postura aggressiva sia a nord che a sud, fungevano da ulteriore protezione lungo il temuto cammino.

Questa interpretazione è sorretta dalle frammentarie conoscenze a disposizione e dall’analisi accurata dello strumento che, al di là di ogni valenza simbolica, è l’opera di un oscuro artista ed un piccolo capolavoro della scultorea Ijo.

Elio Revera

Traduzione del testo in inglese.

Il popolo Ijo ((Izon, Ijaw) è la maggioranza degli abitanti del delta del Niger e della sua periferia. Gli antenati del popolo Ijo hanno abitato il delta del Niger sin dall’antichità e il periodo di insediamento è ancora oggetto di ricerca. Quando le persone iniziarono a diffondersi e migrare attraverso le numerose isole e corsi d’acqua, formarono vari clan e regni come comunità aborigene autonome. A partire dal XV secolo d.C., altre persone del nell’entroterra del delta del Niger iniziarono a stabilirsi ai margini del delta, a causa del commercio e delle guerre interne. I popoli Ijo risiedono tra i numerosi estuari e foreste di mangrovie del vasto delta del Niger. Associano i corsi d’acqua al commercio e alla ricchezza, mentre le foreste sono piene di pericoli derivanti da nemici naturali e pericoli esistenziali. Quando le persone iniziarono a diffondersi e migrare attraverso le numerose isole e corsi d’acqua, formarono vari clan e regni come comunità aborigene autonome. A partire dal XV secolo d.C., altre persone provenienti dall’entroterra del delta del Niger iniziarono a stabilirsi ai margini del delta, a causa del commercio e delle guerre interne. Associano i corsi d’acqua al commercio e alla ricchezza, mentre le foreste sono piene di pericoli derivanti da nemici naturali e pericoli esistenziali. In questo ambiente di estremi, gli spiriti dell’acqua benevoli si manifestano attraverso mascherate di immagini marine, mentre gli spiriti della foresta feroci e volatili dimorano in figure protettive da santuario le cui teste e occhi multipli facilitano i poteri onniveggenti

La venerazione degli antenati gioca un ruolo centrale nella religione tradizionale di Ijo, mentre gli spiriti dell’acqua, noti come Owuamapu, figurano in modo prominente nel pantheon degli Ijo. Inoltre, gli Ijo praticano una forma di divinazione chiamata Igbadai, in cui gli individui recentemente deceduti vengono interrogati sulle cause della loro morte. Le credenze religiose di Ijo sostengono che gli spiriti dell’acqua sono come gli umani per quanto riguarda i punti di forza e le carenze personali e che gli umani dimorano tra gli spiriti dell’acqua prima di nascere. Il ruolo della preghiera nel tradizionale sistema di credenze Ijo è di mantenere la vita nelle buone grazie degli spiriti dell’acqua tra i quali dimoravano prima di nascere in questo mondo, e ogni anno gli Ijo tengono celebrazioni per onorare gli spiriti che durano per diversi giorni . Al centro dei festeggiamenti c’è il ruolo delle feste in maschera, in cui uomini che indossano abiti elaborati e maschere intagliate ballano al ritmo dei tamburi e manifestano l’influenza degli spiriti dell’acqua attraverso la qualità e l’intensità delle loro danze. Si ritiene che le maschere particolarmente spettacolari siano effettivamente in possesso degli spiriti particolari per conto dei quali stanno danzando.

Nkisi Figures of the Lower Congo by Zdenka Volavkova

Ottimo lavoro di Zdenka Volavkova (7 dicembre 1929 Praga – 18 settembre 1990 Toronto) che ricordo ed ospito con piacere sul blog.
FIG 1 STANDING FIGURE WITH NAILS (DETAIL). WOOD, PAINT, MIXED MEDIA. KONGO. WHOLE FIGURE
25 1/2″ – MUSEE DE L’HOMME, PARIS

When missionaries and travelers of the past encountered fetishes in the numerous villages and towns
of the lower Congo, their judgments of these specific African works of art were unanimous. These
“devil images” (Dapper, 1676; Merolla, 1683) “rudely carved in wood and covered with dirty rags” (J.
K. Tuckey, 1816) were “ferocious in appearance” (H. M. Stanley, 1895). Lieutenant]. K. Tuckey
compared them with “scarecrows” and the Catholic and Baptist missionaries at the end of the 19th
century considered them “indecent” (J. H. Weeks, W. H. Bentley) or “frankly obscene” (A. J. Wauters).

In modern times, after exposure to Dada and Surrealist objects, the Western response to the African
fetish is no longer so negative. Their artistic form, however, still poses many problems and
discussions.1 Let me mention at least the evaluations of fetishes by two major representatives of the
study of African art. Frans Olbrechts, in his book on the art of the Congo, stated that he saw a strong
distinction between Kongo ancestor figures and fetish figures, the latter never revealing a “neat and
technically perfect aspect”.2 William Fagg, on the other hand, speaking on the African fetish in
general in the introduction to the Webster Plass Collection, concluded that the carver, in most cases,
had consciously tried to make the fetishes beautiful and aesthetically satisfying.3

Fetish figures are generally divided according to the character of their effect into two principal groups:
the malevolent and the benevolent. The classification of the Kongo Minkisi is often more detailed in
view of their great variety. Father Van Wing,4 for instance, found among the Mpangu more than one
hundred and fifty kinds of Minkisi (fetishes), the statuettes of which he divided into Biteke and Kkomdi.
According to him, Biteke probably denote large figures and Xbmdi smaller ones, or a special kind
fetish with a specific function. Then several groups of fetishes to their functions: healing fetishes,
fetishes of the bush or of waters, and detective fetishes. A Baptist missionary, J. H. Weeks,5 however,
who spent almost thirty years with the Kongo, first in the area of Sao Salvador and then with the
eastern Kongo, dealt with the groups of fetishes only in terms of their denominations, disregarding the
types.

Beginning with Dapper in 1676 and the record of the Capuchin missionary Merolla, 1683, and ending
with missionary writings of the late 19th and early 20th century, there were presented as many
descriptions and classifications of fetishes of the Lower Congo as there were authors. None of the
classifications were free from ambiguities and vagueness; there was overlapping from one group to
another of types of fetishes and their functions.

In the late twenties and early thirties J. Maes pursued, in his five studies, the systematic classification
of fetishes of the Lower Congo. He divided the fetish figures into four groups: the healing fetishes,
called Na Moganga;6 the malevolent Npezo figures, causing someone’s sickness;7 Mbula figures,
which protect chiefs against the witch power of the ndoki;8 and finally the most malevolent Konde, the
nail fetishes, which inflict serious illness upon persons who are believed to be the cause of trouble.9
Macs’ classification is based upon the functions of the objects. He attempted to prove, however, that
each group corresponds to one or more figural types, with characteristic artistic features.

Na Moganga are, according to the above classification, sitting figures with the arm supporting the
head (Solongo, Kongo, Yumbe) or standing figures with truncated arms (Sundi, Bwenda). They are
richly decorated with various substances and high hair-styles and are always very carefully sculpted,
with peaceful and mild expressions. Maes states that the sculptor wanted to incorporate in his statue
the benevolent attributes endowing it with the general aspect of a restful, reasoning, and powerful
man who disseminates joy and good fortune.10

On the other hand, the Konde and Npezo figures possess, besides their specific types of figure, a
threatening appearance which, in the case of Npezo fetishes, is weakened by the laughing and ironic
expression of the face. Finally, according to this view, the sculptors who tried to give to the Konde
figures especially, a terrible and furious appearance,11 did not aim for awfulness of aspect when
carving an Mbula fetish. The main attribute of the latter is a bunch of small tubes which are filled with
various substances, the most common of which is gunpowder for killing the ndoki.12

This classification of the Minkisi into Na Moganga, Npezo, Mbula, and Konde groups poses several art
historical problems. When cataloguing any collection of sculpture of the Lower Congo one discovers
very early that attributes and artistic features do not give unequivocal evidence for assigning a figure
to any one of the groups. For instance, apiece from the Museum of Primitive Art, New York (Fig. 2)
does not show any “attacking” gesture and the expression of the face is peaceful and almost dreamy,
the figure having closed eyes. All these elements would qualify the figure as a healing fetish, Na
Moganga. One finds, however, in the assemblage of appended attributes, a small dagger and driven
nails, which are linked with the Konde group, as well as two bunches of hanging tubes which belong to
the equipment of the Mbula fetishes. Probably because of these attributes, the figure is described in
the Museum catalogue as a malevolent fetish rather than a benevolent one as might be expected
from its artistic features.

An Nkisi figure in the Neues Museum at St. Gallen, Switzerland (Fig. 3),13 like a similar piece in the
Museum of Primitive Art, New York (Fig. 4), exhibits many of the significant features of the Npezo
fetishes. The bodies of both sculptures are leaning forward, which pose was explained by J. Maes as
a readiness to attack. The expression is almost calm. Finally, the headdress in both cases
corresponded to the Npezo types as defined by J. Maes.14 The feather crown of the St. Gallen figure
is not preserved, yet the traces in the resin helmet prove its former existence. However, the St. Gallen
sculpture, which was purchased before 1915 at Ganda-Sundi, came to the Museum described as a
fetish against foot ailments; that is as a healing Nkisi.

The last example, also a figure from the Neues Museum (Fig. 7), has all the attributes and features of
an Mbula fetish which should kill the ndoki to protect the chief. However, the original description, given
to the Museum in 1915 by the person who purchased the statue at Handa-Sundi, indicates that it is a
Zasi Solo fetish used against pulmonary illnesses.

The same problem occurs when examining written records, many of which are, in this regard, neither
precise nor rich enough. There are, however, several important pieces of information which enable
one to view in history the relationships of the function to type and artistic form.

The English trader, Andrew Battell of Leigh, who stayed in Loango probably from 1607 to 1610 and
who made a trip to Mayombe, described a large image called a Mararnba fetish which he had seen in
Mani Mayombe.15 The figure detected murderers, thieves, and witches by killing them and was used
also in initiation rituals. The chief took it with him every time he travelled and also made offerings to it.
Thus, the figure was supposed to perform at least three different kinds of activity: besides the political
function associated with the chief, it was to protect the initiated, and kill malefactors and suspected
people.

John H. Weeks, who stayed with the Kongo for thirty years beginning in 1882, gave very detailed data
about the function of Minkisi. He described the activity of the “lion doctor” (nganga nkosi) who was
invited at times by men who had been robbed, to curse the unknown thief with pulmonary illness. If
any person then got a lung disease and all remedies failed, the person was believed to be a thief and
the “lion doctor” was called. He used his fetish first for the action called loca e nkisi and then for the
one called lembola e nkisi 16 Loka means in Kikongo “to kill or harm somebody” or “the destructive
force” while lem-bula means “to take off, to wipe out, or to heal”.17 One single Nkisi was thus
employed (as in the case of Battell’s Maramba) for two contradictory actions: accusing and healing.

The image called Ebunze Nkisi both gave and cured apoplexy and was used by thieves as a
protection in a robbery.18 The image utilized by the Nganga Mbambi inflicted and cured deep-seated
ulcers.19 The very powerful Nzaji Nkisi could both protect and kill by lightning and give and heal a skin
disease; it was finally employed to subdue slaves and bind them to their masters.20

These few examples from the records agree with the data obtained in the preceding considerations
on Nkisi sculptures. In addition, they give evidence that polyvalency is inherent to the Minkisi and did
not develop or degenerate in the course of time.

Some changes probably occurred in history, but only in relation to application of the fetishes. Dapper
in the 18th century noted the female form of the Nkisi called Nkosi, the lion, which he mentioned when
dealing with Loango.21. In the 1930’s Van Wing gave a detailed description of both forms of Nkosi,
the female one being a sack and the male one an anthropomorphic figure.22 In Dapper’s
presentation the Nkosi are utilized as protection against lightning and sickness. The Mpangu in the
area of Van Wing’s mission at Kesantu, on the other hand, used Nkosi to detect and kill thieves and
ndoki, and in the Kimpasi initiation society against disobedient members. It is believed that the Nkosi,
having detected the enemy, kills him by crushing him so that all blood gradually leaves his body. The
same cruel vision is reflected also in the incantation song of the male Nkosi noted by Van Wing.23
Words like Kimenga kyaku dia (drink his blood), Zeka nsingu (twist his neck), or Uonda (kill!) directly
contrast with the peaceful male figure which was published by Van Wing24 and which reveals neither
in its medium nor in its composition and sculptural treatment any trace of a menacing expression.

The most terrible appearance is attributed to the nail figures. In anthropological literature they are
generally known as Konde or Nkonde. Laman’s Dictionary of 1936 notes Khonde which designates in
the Yombe dialect an Nkisi, and Nkondi which means a hunter who leaves to hunt in secret, and an
Nkisi provoking a sickness in the chest, an Nkisi detecting a thief, or finally, a large statue in wood.25
The last meaning corresponds to Van Wing’s interpretation of Nkondi as being among the Mpangu,
either a large or small Nkisi figure.26 On the other hand, J. H. Weeks, who lived in Sao Salvador and
with the Zombo and other Eastern Bakongo, mentioned the nail figures called Mbanzangola which
belonged only to the magician and never to a private person.27 According to most records, the nail
sculpture operates in a destructive way. Sometimes, however it is mentioned as a healing fetish.28 A.
Maesen designates its role as ambivalent.29 The meaning of knife-stabs or of nails driven into the
vital parts also seems to be somewhat ambiguous; there is an interpretation viewing them as offerings
for benefits received. A nail may also be driven into the image by a sick person to pass on his
complaint to an enemy, who, he thinks, sent it to him.30 The destructive and horrible impression of
Nkondi figures results from their specific paraphernalia such as nails and other attributes, and from
their partial polychromy, rather than from the carved statuettes themselves. Even the “menacing”
gesture is often replaced by the gesture of the medicinal figures. Such is the case, for instance, of the
large, almost life-size sculpture from the Linden-Museum, Stuttgart (Fig. 6), and of other nail figures
published by Jiirgen Zwernemann.31 Sometimes, the gesture of the figure becomes irrelevant, being
hidden by the paraphernalia.

Nails and knife stabs have a great deal to do with the total expression of Nkondi figures. However,
they doubtless became components of the statuettes only when the carver’s influence was ended.
The art historians of the period of Romanticism would probably have demanded their removal,
considering them to be reminders of ritual and not the intention of the artist. Today’s aesthetic
appreciation includes them in the artistic components of the figure. As such, they appear strange
within the context of the traditional media of African art. Unlike the decorative round-headed nails
which occur in Songye sculpture and sometimes appear in the Lower Congo, the nails and knife
marks on the Nkondi figures are naturalistic. Used on the anthropomorphic shape of the figures, they
operate as wounding instruments. This effect probably accounts for the theory that they are
influenced by the Christian idea of the nail symbolizing Christ’s suffering.

Without claiming the latter hypothesis to be a final solution, it can be supported with some arguments.
The earliest record on nail figures of the Lower Congo that I have been able to find, that of Tuckey, is
dated 1816.32 Dapper, who in the 17th century compiled in his descriptions of Loango, Kongo and
Angola much detailed data on African objects and rituals, mentioned the use of iron nails and
fishhooks only in connection with a pot filled with earth and hung with rags.33 The 16th and 17th
centuries, the period before and after the Jaga invasion, is the period of a cultural syncretism
expanding mainly from Sao Salvador, Soyo, and the port of Cabinda. Through trade and missions
many non-African objects came into the country. “All the missionaries carried a chest along with them
containing all things necessary for the holy sacrifice,” stated the Capuchin Denis de Carli.34 Pigafetta
spoke of “many divers images of Christ, of the Virgin Mother and of other Saints” brought to the
Kongo by the Portuguese.35 The assimilation of these objects by the Kongo was doubtless not as
easy and peaceful as Pigafetta thought. The king, he said, gathered his people together “and instead
of their idols which before they had in reverence, he gave them crucifixes and images of saints…” and
“they never more remembered their former belief in false and lying idols.”36 Dapper, in 1676, viewed
the situation more realistically stating that the people in the Kongo, had “two arrows in their bows,”
Catholic and Pagan ones, mixing the objects of both rituals.37 This situation still existed in some
areas in the 19th century. Captain Tuckey, in 1816, saw at Noki, in the region of the cataracts, that
“the crucifixes left by the missionaries were strangely mixed with the native fetishes and the people
seemed by no means improved by this melange of Christian and Pagan idolatry.”38 “Santu” crosses
and crucifixes, utilized as amulets bringing good fortune in hunting,39 as tokens of prestige in the
investiture and in the procedures of justice 40 and probably for other purposes as well, prove that the
period of syncretism in art was no short episode. Tata Nsiesie observed, in the early 20th century, a
special predilection for small copper images of the Immaculate, and for the wooden statuette of St.
Anthony.41 The latter was worn by pregnant Kongo women on the breast in order to have either a
son or a daughter, according to the kind of offering given it. In the early 1880’s J. H. Weeks received
such a sculpture from a young man in whose family it had been for several generations where it was
regarded as a fetish.42

The syncretism consisted both of the common ritual use of imported and traditional works of art and of
the initial production of objects varying from the imported type and form. In addition, the vision of the
people was necessarily affected by the strange formal and symbolic vocabulary, of which particular
elements were very probably incorporated in their art. To return to the wounding nails and stabs
driven into the bodies of the sculpture, it is pertinent to mention a short story recorded by Merolla. At
the mission at Soyo “on the feast of the Purification of the Virgin Mary, I had a mind to preach a
sermon against these practices [fetishism, initiation, etc.] and the better to move the people, I had
before placed the image, in relief, of this blessed saint, covered on the altar, with a dagger stuck
through her breast from which the blood flowed; this done, I began to discourse against those women
that observed the hellish delusions before mentioned, proving that they thereby not only offended
their loving Saviour, but likewise did great injury to his immaculate mother. At the same instant I drew
aside the curtain and discovered the image, which the people perceiving so wounded and bloody,
began immediately to relent, and broke out into the extremest grief.”43

This story may serve as an example of new experiences to which the people were exposed in the time
when the missions were at their peak. Thus, in the complex syncretic process the symbols of Christ’s
suffering and the Virgin’s sorrow might have been amalgamated by the African system of signs and
become instruments inflicting an enemy with serious disease or death. Finally, a record noted by
Dapper may contribute to the approximate dating of this change. An Nkisi called Kikokoo, which
appears also in other records, was a man’s image of black wood standing in the village of Kinga on
the coast of Loango. It kept the sea calm and brought much trade and many fish to Loango. Stolen
one night by two young men from a Portuguese boat, it was damaged. Therefore the young men
drove nails into its head and arm in order to attach them again to the body, and, in the night, returned
the statuette to the village. A story was immediately diffused by the nganga saying that Kikokoo had
been to Portugal and brought back with him a boat full of merchandise. Shortly after this, a
Portuguese boat was wrecked on the Loango coast. The people explained it as the statuette’s
revenge for the nails driven in its head while in Portugal.44 Dapper’s story records what is doubtless
an oral African legend. In an indirect way it reveals that the driving in of nails and stab marks was not
at that time a current ritual, and that the practice may have started as a novelty sometime about or
after the mid-17th century.

Nails and knives driven into the sculpture are crucial for its aesthetic appearance. They are directly
linked with the total function of the fetish, although the latter is not precisely definable. They
represent, however, a specific element which was added to the statuettes after the artist’s work was
finished and was not therefore an intentional artistic medium. In addition, this element is not, most
probably, an autochthonous one, but is an assimilated attribute. Previous observations of some
fetishes, on the one hand, and of several written records, on the other, resulted in the following
conclusions: 1. the function of Minkisi was and is ambiguous; 2. an Nkisi figure operates in most cases
in an antithetical way —both as a benefactor and malefactor; 3. the morphological features and the
types of the fetishes are not in accordance with their functions.

When viewed as works of art, many Nkisi figures show a contrast in the making of the head or face
and that of the body.45 The rendering of the head is fine and the forms are sensitively moulded. The
body, arms and legs, on the other hand, are sometimes hardly articulated and are roughly carved in
large cuts. The head and body are not balanced in the rendering or the proportions. Sometimes the
discrepancy between the carefully carved head and the coarsely carved body cannot be seen, the
body being hidden partly or completely by the paraphernalia. There are also, however, many cases in
which the carving and shaping of the body is as delicate as that of the head, although it is still
covered by the paraphernalia.

The fundamental medium of the Nkisi figures is wood. The figure used as a fetish, however, is an
assemblage of heterogeneous materials and objects all of which, with the carved wooden part, make
one single complex appreciated as a work of art. In the light of existing records it is possible to trace
each step of the process by which this complex originates. When a person feels the need to own a
fetish, he buys a statuette either from a carver or in the market.46 This statuette is not yet an Nkisi,
but only the basis for one; the person has bought a piece of sculpture, not an Nkisi. This image or
sculpture is called in the Eastern Kongo teke or teki.47 An Nkisi figure comes into existence only after
a ceremony in which the force or “respect” (nkinda) is put into the image and the paraphernalia added
to it. This second part of the work on the sculpture is performed by the nganga, the diviner. He places
the magic substance not only in a receptacle in the body, but often in the head also. He shapes the
headdress, sometimes paints the figure’s face, and adds various materials and small objects to the
statuette, sometimes covering most of its parts.

Thus, the statuette leaves the carver’s hands in an unfinished stage. The Uganda’s, intervention is a
ritual one, yet it influences fundamentally the morphology of the figure and its artistic effect. The
carver finishes the face, for instance, giving to it a specific volume and endowing its features with
specific shapes and spatial depth. If he does not actually carve the headdress itself in wood, he will
prepare a kind of peg or substructure with engraved surface so that the moulded headdress will hold
well. The headdress then added by the nganga becomes an artistic part of the figure, interacting with
the carved face through its volumes, shapes and textures.

This special division of labor between the carver and the nganga may be eliminated only in the case
of personal union. This occurred, for instance, with Mipako, both wood-carver and nganga among the
Sise in the Teke area, who was the informant of Robert Hottot.48

Evaluation by society of the carver’s work, on the one hand, and the nganga’s work on a single
feature, on the other, is remarkably different. J. H. Weeks 49 noted that a wooden image could be
bought for a yard or two of common calico. Its change into a strong fetish, however, could cost the
buyer forty or fifty yards or even the price of a slave.

The nganga’s participation is apparently much more highly valued than is the wood carver’s work.
Older records sometimes mention the nganga as being the author of the whole image,50 which might
suggest that this difference in the appreciation is a traditional phenomenon. The question now is
whether the price difference shows merely the high appreciation of the magical ritual or whether it
expresses also something about the artistic value. The analogy exists in late medieval European wood
carving. The carver was paid much less than the painter who painted the sculpture.51 Both were
considered artists in the medieval sense, but the work of the first one did not result in a final product.
In the case of the Nkisi figure, only the carver is the artist. The discrepancy in the price, however, may
also be due to the fact that his work is materially unfinished.

The materials and objects added by the nganga to the figures are not only heterogeneous, but are
curious, unusual and enigmatic. The unexpected compositions often fascinated European travellers of
the past. “There is nothing so vile in nature, that does not serve for a negro’s fetish” noted the
naturalists of Tuckey’s expedition in their diary.52 These combinations of, for instance, the European
iron padlock, a bird’s bill, the head of a snake, with nuts, pebbles, a hunting net and bead necklaces
53 were, there is no doubt, intended to strongly affect the purchasers. The absurdity of such
compositions of objects and substances taken from their natural contexts and put into new, artificial
ones served as an important means of expression. The unforeseen and surprising also played their
parts. Numerous are the records stating that the people preferred to have an nganga who came from
a village distant from their own. For medicinal purposes they seldom, if ever, engaged the nganga
from their own village. As Weeks said, “they know too much about him to waste their money on him.
They see him repairing his charms and fetishes from the depredations of rats, cockroaches and white
ants….”54

What the nganga adds to the figure is considered functional, but to a large extent, it operates
psychologically. The nganga assigns the fetish a specific function sometimes by means of the
paraphernalia, but generally by means of the name given to the figure in the course of its ritual
initiation.

The carver also tried at times to comply with the future paraphernalia of the statuette. For instance,
the piece from the Tervuren Museum found in the neighborhood of Boma (Fig. 5) reveals the artist’s
intention to prepare an Nkisi figure having a container for magical ingredients in its stomach and one
on the right shoulder, similar to a Kongo statuette at the Musee de l’Homme (Fig. 9). The Tervuren
figure, which was not finished by the nganga, shows well how the wood carver had prepared the
surface of the statuette for the resin over modellation and for the headdress. There are, however,
numerous instances proving that the artist’s intention was not pursued or was misunderstood by the
nganga. Sometimes the nganga disregarded the fact that the body should be partly covered, and at
other times he neglected the peg for the headdress. He left the statuette both materially unfinished
and artistically disharmonious. Finally, other instances show that the nganga sometimes changed
even the carved parts, covering, for example, the carved hairstyle by the resin hat which he probably
considered important for a particular function. Such is the case, for instance, of the figure from the
Tervuren Museum collected at Boma.

Each nganga might have had some personal convention in the use of his attributes,    yet    
improvisation    also played  a  part.  The  attributes  of an Nkisi figure were also sometimes
subsequently changed. Most Minkisi, in other   words,   have   been   employed many  times.  
Sometimes  the  nganga simply followed a different mode of procedure to use the same fetish for a
purpose other than its previous one. At   other   times,   however,   he   even adapted the fetish for
another operation  of the  same  cult. J.  H.  Weeks mentioned that there may have been
simultaneously   in  use   1000  charms and fetishes of a particular name, a situation  offering  
freedom  for much improvisation, considering that there were   no   fixed  iconographical  rules.
Finally, an Nkisi figure which is found weak or ineffective may be returned to the nganga. The records
suggest that the  nganga, after a little adaptation, sometimes sold them to another client. The
previous considerations might make   clear   the   complex  procedure in which the Nkisi figure
gradually originates as both a work of art and a functioning fetish. Some partial results may   be   
concluded:   1.  Many  of the unfinished  figures  in the collections and   museums   are   not   Minkisi   
but Biteki (non-potential statuettes). They were probably bought either from the artists  or in the
market. 2. The non finito of these Nkisi figures may appear in both the material and artistic senses. 3.
The reason for their non finito is to be found in the specific division of the working process between
the carver and  the  nganga,  rather  than  in  the different evaluation by the society of the fetishes on
the one hand and of the basic sculpture on the other.

The correlation of the work of the wood carver to that of the nganga is crucial for the final artistic
quality of an Nkisi figure. Several of the instances already discussed showed how the carver
technically prepared for the nganga’s intervention. Finally, it seems possible to demonstrate how the
carver’s anticipation of this cooperation appears in some of the artistic features of the statuette. One
of the arguments offered regarding the carelessness in the making of the Nkisi figures is the exclusion
of the forearms. This feature contrasts, in the eyes of the Western viewer, with the anthropomorphic
character of the figure and may awaken the impression of mutilated body. This motif, unusual in
African sculpture on the whole, probably manifests the carver’s respect for the completion of the
figure by the nganga by giving the latter greater freedom for attaching a receptacle.

The statuette with its arms behind its back was interpreted as being like a slave with tied hands.
Drawing an analogy with some other figures having only one forearm behind the back, while the
second arm was occupied with another and probably symbolic gesture, I prefer to consider the placing
of the arms behind the back as a compositional matter and not as a realistic gesture illustrating the
depicted person’s status.

Very rare are the Nkisi figures lacking gesture, with arms falling straight down along the body. This
rarity encourages me to assume that in general the arms are a substantial part of the fetish, being the
carriers of the gesture. The gesture cannot be read, in my opinion, as a narrative element in Western
terms, but as a vehicle for the potential of the fetish. The raised arm, for example, seems to be more a
sign of prestige in the hierarchy of fetish potencies than a killing or menacing gesture. Returning to
the relationship between the arms and the receptacle, some gestures appear to aim at the resin box.
These gestures are probably somehow symbolically linked with the substances which the nganga is
supposed to introduce. Later the receptacle added by the nganga may cover the hands and the
forearm. Thus, the carver composed the figure giving to the nganga a kind of visual suggestion to
attach a smaller or larger box.

The artistic result depends, in this specific division of the working process, very much upon the
nganga’s visual sensibility and experience and upon mutual understanding. Numerous instances show
the resin box corresponding or interacting in its pattern and volume with the proportions and the
angular or round forms of the figure. The carver often goes rather far in his visual suggestions. The
poses of the figures and the distribution of their mass also suggest to the nganga the approximate
shapes of the receptacle or headdress. The result depends very much upon the nganga’s ability to
read the carver’s visual language. His added attributes and paraphernalia may complete and
emphasize the balance of the volumes and forms of the statuette, and may operate more or less in
the interplay of its protruded shapes. Or, in the opposite case, the added elements may more or less
suppress the reading of the visual message. This message plays, with the Nkisi figures, its specific
aesthetic role, being neither implication nor illustration of any precise function.

Finally,  some  rather general conclusions may be given:
1. The precise function of the Nkisi figures of the Lower Congo does not, and did not, in history,
implicate their particular forms and types, the assignments of the fetish being mostly oral and magical.

2. The artist carved the statuette ignorant of its function in terms of the fetish ritual, and therefore, he
was not able to illustrate the function realistically.

3. The final form and type of the Nkisi figure does not result (in opposition to the Western art of the
19th and 20th centuries) solely from the artist’s vision and intention, but from the cooperation of both
the carver and the nganga and eventually the consumers as well, and is affected by the nganga’s
comprehension of the carver’s visual impulses. The artist’s suggestions more or less regulate the
artistic completion of the figure, but do not intervene in its function.

4. Particular features of the morphology and of the types such as pose, gesture, and composition are
not psychological and realistic interpretations of the functional assignments of the figures, but have
traditional symbolic meanings.

5. Lower Congo has been exposed, since the 15th century, to strong European cultural impact. The
art of this area is often used to serve as an example of the thesis that Western influence expressed
itself in the realism of this art, in the choice of its motifs and character of its style. The Nkisi figures do
show the integration of some foreign elements and objects. On the
other hand, the evidence discussed in this study indicates that the figures did not undergo any
fundamental change in conception. It is the interpretation of them, rather than their own character,
which sometimes corresponds to the Western standpoint of the second half of the 19th century. The
Nkisi figures themselves, however, remained African.

(Notes below the images)

The figures mentioned in the text
FIG 2. STANDING  FIGURE.
WOOD, MIXED MEDIA. KONGO.
23 1/8″.  THE  MUSEUM  OF  
PRIMITIVE ART.  NEW YORK
The figure is not in the collection of the Metropolitan Museum of Art in NY.
The photo above is one I took in 2005.
FIG 3. STANDING FIGURE WITH
RECEPTACLE. WOOD, MIXED MEDIA.
KONGO. 10 5/8″ . NEUES MUSEUM,
SAMMLUNGEN FUR VOLKERKUNDE,
ST. GALLEN
FIG 4. STANDING FIGURE WITH
RECEPTACLE. WOOD, MIXED MEDIA.
KONGO. 14 1/4″. THE MUSEUM OF
PRIMITIVE ART, NEW YORK.
FIG 5. STANDING FIGURE. WOOD.
COLLECTED IN THE BOMA AREA.
7 3/4″. MUSEE ROYAL, DE L’AFRIQUE
CENTRALE, TERVUREN
FIG 6. STANDING FIGURE WITH
NAILS AND RECEPTACLE. WOOD
AND MIXED MEDIA. YUMBE. 3′ 4″.
LINDEN MUSEUM, STUTTGART
FIG 7. STANDING  FIGURE WITH TUBES AND RECEPTACLE.
WOOD, MIXED MEDIA. COLLECTED AT UPPER MAYUMBE
AREA. 12 1/4″. NEUES MUSEUM, SAMMLUNGEN FUR
VOLKERKUNDE, ST. GALLEN
FIG 8.  STANDING  FIGURE WITH  RECEPTACLE ON THE CROWN
(DETAIL). WOOD, MIXED MEDIA. KONGO. HEIGHT OF WHOLE FIGURE
32″. MUSEE DE L’HOMME, PARIS
FIG 9. STANDING FIGURE WITH
RECEPTACLE. WOOD, MIXED MEDIA.
KONGO. 14″. MUSEE DE L HOMME,
PARIS
FIG 10. STANDING FIGURE WITH CHAIN
ATTACHED. WOOD, VARIOUS MEDIA.
KONGO. 7″. MUSEE ROYAL DE L’AFRIQUE
CENTRALE. TERVUREN

NKISI FIGURES, Notes from Zdenka Volavkova

1. This study includes a substantial part of a paper given at the Symposium on Traditional African Art organized by
the Peabody Museum and CAAS at Harvard University on May 4-7, 1971. It is a component of a research project on
the history of Kongo art. I am gratefully indebted to the University of Kansas and the Faculty of Fine Arts at York
University, Toronto, which supported my project. I am also grateful to the staff of the museums where I studied the
fetishes: Musee Royal de I’Afrique Centrale, Tervuren; Musee de l’Homme, Paris; Neues Museum, St. Gallen; and the
Museum of Primitive Art, New York. I especially wish to thank Professor A. Maesen for his friendly discussion of my
work.
2. Les Arts Plustiquesdu Congo-Beige, 1959, pp. 43-44.
3. William Fagg, “Introduction,” The Webster Plus* Collection of African Art, British Museum, London, 1953.
4. R. P. J. Van Wing, Etudes Bakongo 11. Religion et Magic, Bruxelles, 1938, pp. 123-126.
5. John H. Weeks, Among the Primitive Bukongo, Lon¬don, 1914, pp. 235-242.
6. J. Macs, figurines Na Moganga dc Guerison des Populations du Bus Congo, Pro Medico (Paris) 1927, nr. 3, pp.
81-86; nr. 4, pp. 68-73.
7. J. Maes, Figurines Npezo du Bus Congo, Pro Medico (Paris) 1929, nr. 2, pp. 48-52.
8. J. Maes, Les Figurines Sculptees du Bas Congo, Africa (London) 1930, pp. 354-356.
9. J. Maes, Figurines du Bas Congo, Pro Medico (Paris) 1930, nr. 1, pp. 4-7.
10. J. Maes, Figurines Sculptees, p. 351.
11. Ibid., p. 348.
12. Ibid., p. 354.
13. The Kongo fetishes in the St. Gallen collection were discussed by Z. Volavkova (“Nkisi Figuren vorn unteren
Kongo als Kunstgegenstande,” DU, Zurich, in press). There also, the problem of the ambiguity of the function was
raised.
14. J. Maes, Figurines Npezo, loc. cit.
15. E. G. Ravenstein, ed., The Strange Adventures- of Andrew Battell of Leigh, in Angola and the Adjoining Regions,
London 1901, pp. 56-58.
16. J. H. Weeks, op. cit., p. 219.
17. Karl E. Laman, Dictionnaire K-okongo-Francais, Bruxelles, 1936 (Reprint 1964), I, pp. 392-393.
18. J. H. Weeks, op. cit., pp. 237-238.
19. Ibid., pp. 223.
20. Ibid., pp. 222-223,237.
21. Olfred Dapper, Umstdndliche und eigentliche Besch-reihung von Afrika und eigentliche Beschreibung der Insulen
in Afrika, 1670, New York, Johnson Reprint Corp. 1967, p. 536.
22. R. P. J. Van Wing, op. cit., pp. 133, 190-192.
23. Ibid., pp. 191-192.
24. Ibid., pi VIII.
25. K. E. Laman, op. cit., I, p. 311; II, pp. 725-726.
26. R. P. J. Van Wing, op. cit., p. 124.
27. J. H. Weeks, op. cit., p. 225.
28. P. Butaye who stayed at the Catholic mission at Boko (Kwangu) mentioned Nkondi as a healing idol (“Les fetiches
et les malefices,” Revue Missionnaire desjesujtcs Beiges, 1899, p. 310).
Also Gilmont 1899, (quoted by Cyr. Van Overbergh, Les Mayombe, 1907, p. 292.) denoted it as a fetish healing
diseases.
A. J. Wauters (“Les fetiches,” Congo illustre: Voyages et travaux des Beiges, Vol. 1, No. 3, 1892, non pag.)
designated Nkodia as a god of victory.
29. Congo Art and Society. Art of the Congo. Catalogue. Walker Art Centre, Minneapolis^ 1967, p. 21. See also
H. W. Hall, “A Congo Fetish or Divining Image from the Coast Region,” Museum Journal, Philadelphia, 1924, pp.
68-69.
30. J. H. Weeks, op. cit., p. 225.
31. Jiirgen Zwernemann, “Spiegel- und Nagelplastiken vom unteren Kongo im Linden-Museum,” in Tribus. Stuttgart,
1961. Neue Folge, Nr. 10, pp. 18-20.
32. Narrative of an Expedition to explore the River Zaire…in 1816 under Captain]. K. Tuckey, R.M., London, 1818, p.
180.
33. Dapper, op. cit.,_p.530.
34. “A Curious and Exact Account of a Voyage to Congo in the years 1666 and 1667 by the R. R. F. F. Michael
Angelo of Gattina and Denis de Carli of Piacenza…,” in A General Collection of the best and most interesting
Voyages and Travels in all parts of the world, by John Pinkerton, London 1814, p. 160.
35. Philippo Pigafetta, A Reporte of the Kingdome of the Congo, a Region of Africa, and of the Countries that border
rounde about the same…Drawen out of the writings and discourses of Odoardo Lopes, London 1597, p. 148.
36. Loc. cit.
37. Dapper, op. cit., p. 569.
38. J. H. Tuckey, op. cit., p. 165.
39. Described for the first time by W. H. Bentley (Pioneering on the Congo, London 1900, p. 36) and introduced to
ethnological literature by the Swedish ethnographer Ernst Olson in Manke: Santu, der kreuzformige jagdfetisch der
Bakongo, Volkerkunde (Wien), 10-12 Heft, jg. 4, pp. 217-223.
40. A. Doutreloux, “Fetiches d’investiture au Mayumbe,” Folia scientifica Africa central, 31 Dec. 1959, Vol. V., No. 4,
pp. 69-70.
41. Tata Nsiesie, Notes sur les Christs et Statues de I’ancien Congo, Brousse (Leopoldville), 1939, No. 3, pp. 32-34.
42. J. H. Weeks, op. cit., p. 261.
43. “A voyage to Congo and Several Other Countries, chiefly in Southern Africk by Father Jerom Merolla da Sorrento,
a Capuchin and Apostolic Missioner in the year 1682″, in J. Pinkerton, oji. rit.. p. 238.
44. Dapper, op. cit., p. 535.
45.   Z.  Volavkova,  “Nhisi Figure,,   vom unteren Kongo als
Kunstgegenstande,” DU, Zurich, in press.
46. See for instance, R. P. J. Van Wing, op. cit., p. 127.
47. J. H. Weeks, op. cit., p. 232, quotes teke. Karl E. Laman, op. cit. II, p, 960, quotes teki.
48. Robert Hottot, “Teke Fetishes,” (prepared for publication by Frank Willett), Journal of Royal Anthropological
Institute, Vol. 86, No. 1, (1956), pp. 25-36.
49. J. H. Weeks, op. cit., p. 233.
50. See for instance, Dapper, loc. cit.
51. V. Volavka and Z. Volavkova, De Statua, Introduction to the Theory and Historical Technology of Sculpture,
Praha, 1959, pp. 314-323.
52. Narrative of an Expedition to explore the River Zaire…in 1816 under Captain]. K. Tuckey, R.M., London, 1818, pp.
375-376.
53. See for instance, the detailed descriptions of the nganga’s materials by W. H. Bentley, op. cit., p. 257, or by L.
Kiener, op. cit., p. 23.
54. J. H. Weeks, op. cit., p. 385.

Il cacciatore magicien

Già in altra occasione mi sono occupato della caccia, che per i popoli primordiali era essenziale, insieme all’agricoltura, per la loro sopravvivenza. Un’attività, quella della caccia, che riuniva svariati significati simbolici al di là del suo fine precipuo, quello di catturare prede animani. (https://artidellemaninere.com/2020/10/24/la-voce-del-cacciatore/)

I riti e gli strumenti della caccia diventavano, quindi, anche veicoli di socializzazione, di fratellanza e di condivisione dell’intera collettività. (https://artidellemaninere.com/2016/12/09/hunting-charms-a-caccia-con-lamuleto/)

Fabbri, diviner e cacciatori, per motivi diversi, erano sovente le figure di riferimento all’interno della loro comunità e godevano di una consolidata reputazione.

Il cacciatore, muovendosi, stante la sua attività, tra il villaggo e la brousse, incarnava colui che è a contatto ravvicinato con le forze dell’invisibile che goverano il mondo. Pertanto il suo agire non poteva che essere regolato da istanze superiori la cui conoscenza era esiziale perchè piante, alberi ed animali erano inevitabilmente manifestazioni di quelle forze.

Courtesy Pressbooks@MSL

Il ritrovamento di uno straordinario manufatto, mi fornisce l’occasione per delineare ulteriormente il ruolo e lo status del cacciatore presso un’importante comunità maliana: quella dei Bamana.

A Bamana Tribesman Poses Outside his Home, Mali, Circa 1930’s

Chi era il cacciatore? Come operava? Con quali mezzi, in quale ambito? Proviamo ad osservare più da vicino, questa importante figura.

Scrive Catherine Barrière


“Dans le domaine de l’agression magique, les utilisateurs potentiels sont assez nombreux. Ils sont le plus souvent chasseurs, forgerons ou marabouts (Bamana islamisé) et l’exercice de travaux d’agression est souvent devenu une activité d’appoint pour améliorer le revenu familial.

Ainsi, certains marabouts et d’autres praticiens bamana reconnaissent effectuer des travaux parce qu’ils ont besoin d’argent. Ils échangent volontiers des recettes avec des manipulateurs d’obédiences différentes, brisant ainsi les frontières entre les pratiques respectives de chacun.


Les marabouts revendiquent généralement un certain savoir qui leur sert de vitrine, tandis que les chasseurs se comportent davantage en amateurs, agissant pour leur propre compte, dans un souci de légitime défense, si l’on
peut dire, afin de se faire respecter par autrui et de marquer des limites.

Ils s’assurent donc ce qu’on appelle dans le français local un blindage contre les agressions magiques, dont leur réputation dépend ; ce blindage est conçu comme le résultat d’une élaboration complexe à laquelle les Bamana donnent le nom de « travail » (bara) : « Si tu ne fais pas un travail à quelqu’un qui t’emmerde, on va dire qu’il est plus fort que toi. »….

Une autre différence essentielle tient aux supports de leur art. (Bamana e marabout musulman).

Les praticiens bamana, inspirés par les méthodes de composition de leurs objets puissants traditionnels, utilisent, de façon générale, des matériaux d’origines très diverses : des végétaux, des fragments de corps d’animaux, des déjections
animales ou humaines, des organes prélevés sur des cadavres humains.


Le marabout musulman auquel un problème est soumis se retire et se laisse guider par Dieu en se recueillant et en récitant ses noms” .
(Barrière Catherine. Techniques d’agression magique en pays bamana (région de Segu, Mali) : emprunts réciproques entre islam et religion traditionnelle. In: Journal des africanistes, 1999, tome 69, fascicule 1. Des objets et leurs musées. pp. 177-197.)


(Versione Italiana) Nel campo della pratica magica, i potenziali interpreti sono piuttosto numerosi. Il più delle volte sono cacciatori, fabbri o marabutti, cioè bamana islamizzati, e praticare la magia è spesso diventata un’attività secondaria per migliorare il reddito familiare. Pertanto alcuni marabutti e altri praticanti Bamana riconoscono di svolgere un lavoro perché hanno bisogno di denaro. Si scambiano volentieri ricette con diviner di diverse convinzioni, abbattendo così i confini tra le rispettive pratiche di ciascuno. I marabutti generalmente rivendicano una certa conoscenza che serve loro da vetrina, mentre i cacciatori si comportano più come dilettanti, agendo per conto proprio, per motivi di autodifesa, per essere rispettato dagli altri e per segnare dei limiti. Assicurano quindi quella che in francese locale viene chiamata schermatura contro la stregoneria, da cui dipende la loro reputazione; questa protezione è concepita come il risultato di un complesso rituale a cui i Bamana danno il nome di “lavoro” (bara): “Se non fai un lavoro per qualcuno che ti dà fastidio, diremo che è più forte di te. »

Un’altra differenza essenziale riguarda le fondamenta della loro arte (magica).

I diviner Bamana, ispirandosi ai metodi compositivi dei loro potenti oggetti tradizionali, utilizzano generalmente materiali di origini molto diverse: piante, frammenti di corpi di animali, escrementi animali o umani, organi prelevati da cadaveri umani.

Il marabutto musulmano, cioè il Bamana convertito all’Islam, a cui è sottoposto un problema si ritira e si lascia guidare da Dio meditando e recitando i suoi nomi.

Hunter with protective charms fetish Courtesy Bonnefont ca.1890

In questa imponente incisione di fine ‘800, tutta la ricchezza delle armi, degli amuleti, delle cariche magiche che connotano il costume del cacciatore, appaiono nitidamente e il ruolo/status sociale del cacciatore non necessita di ulterioni conferme.

Photo di Hughes Dubois

Questo è lo straordinario ritrovamento a cui accennavo prima, unico nel suo insieme per rarità, completezza, intensità ed epoca.

“Rare panoplie complète d’un chasseur Bamana complenant un long poignard à manche anthropomorphe dans son fourreau de cuir, deux autres couteaux de plus petite taille dans leurs fourreaux, trois sacoches de cuir renfermant un silex et de l’étourpe pour faire du feut et des produits divers, un lingot de métal dans son étui probablement utilisé en percussion contre le silex ou pour aiguiser les couteaux et infin l’harnachement permettant de porter cet attirail autour de l’épaule. ..époque présumée fin XIX /début XX s.

Nelle immagini, la tipica definizione della testa della scultorea dei Bamana.

Chez les Bamana être chasseur “donso” signifie avant tout appartenir à l’association des chasseurs ” donso-ton”. Cequi implique de se soumettre aux règles de la chasse traditionnelle, être un connaisseur de la brousse et du pouvoir des plantes ou des esprits quelle abrite, contribuer à maintenir l’ordre social et assumer la subsistance des siens en leur procurant du gibier. Les associations de chasseurs sont des confréries soumises à une longue initiation et à des règles morales strictes.” (Olivier Larroque)

(Versione italiana).”Rara panoplia completa di un cacciatore Bamana, dotata di un lungo pugnale con impugnatura antropomorfa nel fodero di cuoio, altri due coltelli più piccoli nei loro foderi, tre sacchetti di cuoio contenenti una selce e alcuni stoppini per accendere il fuoco e prodotti vari, un lingotto di metallo nella sua custodia, probabilmente usato a percussione contro la selce o per affilare i coltelli ed infine l’imbracatura che permetteva di portare questo armamentario a tracolla… presumibilmente verso la fine dell”800/ primi ‘900. Tra i Bamana essere cacciatore “donso” significava soprattutto appartenere all’associazione dei cacciatori di “donso-ton”. Ciò implicava sottomettersi alle regole della caccia tradizionale, essere conoscitori della boscaglia e della potenza delle piante o degli spiriti che la ospitano, contribuire al mantenimento della comunità di appartenenza sociale procurando loro la selvaggina. Le associazioni di cacciatori erano confraternite soggette a una lunga iniziazione ed a rigide regole morali.”(Olivier Larroque)

La chasse ne perdra pas son goût tant que les femmes fécondes enfanteron.

La caccia non perderà il suo sapore finchè le donne fertili avranno figli.

(Canto Bamana che elogia la figura del cacciatore)

Elio Revera

Il doppio…raddoppia!

Il mitologema del “doppio” attraversa le culture di tutte le civiltà, dal termine ka , che nell’antico Egitto indicava proprio tale idea, al Narciso di Caravaggio (1597), dal folklore anglosassone e nordico alle storie degli indiani d’America, dai miti della letteratura: Hoffmann, Dostoevskij, Stevenson, Wilde, Kafka, Pirandello, fino al pittore austriaco Kokoschka, che per un periodo si accompagnò al feticcio dell’amante perduta Alma Mahler, da lui stesso fatto realizzare.

Alma Mahler feticcio realizzato da Oskar Kokoska

Gemelli, coppie, specchi, altro non sono che figure del medesimo mito del “doppio”. In Africa, tra gli Yoruba della Nigeria, sono note le statuette antropomorfe ere ibeji che altro non erano se non le immagini dei figli gemelli deceduti. Analoghe figure sono presenti anche nelle culture degli Ewe e dei Fon, mentre maschere doppie si ritrovano presso i Senufo ed altri gruppi etnici dell’Africa.

Terre Baule

Nella cultura artistica dei Baule della Costa d’Avorio è dato ampio spazio a questo mito, con le figure blolo blan e blolo bia, la coppia mistica dell’aldilà, e quella di asiè usu rappresentante i geni della natura. Nell’ambito delle maschere-ritratto dei Baule, questa denominata nda, è caratterizzata dal duplice volto.

Courtesy Musée Barbier Mueller. Baule twin mask. 19th century. Wood. H. 29 cm. Collected in the middle of the 1930s. Former Roger Bédiat collection. Inv. 1007-65r. Photo Studio Ferrazzini Bouchet.

Suo compito era di esprimere l’alleanza cosmogonica del mito di fondazione che, nel caos dell’universo, contiene la dualità inscindibile del maschile e del femminile, motore del dinamismo dello sviluppo e della perpetuazione. Il “doppio”,quale espressione di identità e finitezza dell’individuo è infatti al centro della cultura di questo popolo. La maschera dei gemelli isomorfi, nda, differenti nell’acconciatura e nei tatuaggi del viso, veniva utilizzata nelle cerimonie e nelle feste, animata da un unico danzatore.

Coll privata, Parigi, cm. 25

L’ espressione del mito del “doppio” è la cerimonia del goli, destinata a mettere in scena la transizione dal mondo animale a quello umano. Quattro coppie di maschere considerate una famiglia, osu, si alternavano durante la lunga danza. Il doppio, raddoppia!

Coll. Privata cm 90, kplekplé mask

Nel goli, la prima coppia che interveniva, maschile colorata di nero e femminile di color rosso, era la maschera animale tonda kplekplé, seguita dalla coppia glin, che evocava insieme l’antilope, il coccodrillo ed il bufalo.

Courtesy Galerie Nicaud Paris, 83 cm, Glin mask

Poi danzava la coppia kpwankplé, figura antropo-zoomorfa. La maschera kpwankplé esprime i valori incarnati nella cultura Baule. Sintesi di un volto umano con corna di erbivoro, è la rappresentazione del dinamismo e della ricerca dell’equilibrio tra la comunità umana e il mondo delle forze selvagge della foresta, evocate dalle corna.

Courtesy Sothebys, 38 cm, Kpwankpl mask

Infine, al termine del rito goli danzava la kpwan dalle sembianze umane, che concludeva la transizione simbolica dal mondo selvaggio a quello della comunità degli uomini.

Courtesy Dorotheum 38 cm, Kpwan mask

E’ da ricordare in conclusione che la maschera non è soltanto la scultura lignea; questa, infatti, era completata da un ricco costume di materiali etereogenei, a corredo della maschera stessa.

Courtesy Goli-glin masquerade in Bayokro, 1930s. © Museum Rietberg Zurich

Elio Revera

Due maschere iniziatiche Lega

Il popolo Lega, bantù entrati in contatto con i pigmei della foresta, è insediato nella Repubblica Democratica del Congo orientale, nelle regioni boschive e pluviali del Kivu meridionale, nell’area di Mwenga, Shabunda e Pangi. Si ritiene che i Lega siano originari dall’attuale Uganda e che nel XVI secolo abbiano iniziato a migrare fino alla posizione odierna. Questo popolo, con un forte senso di appartenenza, fa risalire le sue origini agli antenati Usamwati e Pygmée, sua moglie.

Guerrieri Lega, 1920

Nella loro società poligamica, la donna non poteva mai lasciare il marito, in quanto custode dei suoi segreti, e l’uomo, pur avendo altre donne, non abbandonava mai la prima moglie. La struttura sociale dei Lega era molto complessa e si basava su un’organizzazione gerarchica ben definita, il bwami, di cui facevano parte sia i maschi, sia le femmine.

Bwami and Kanyamwa

All’interno del bwami vi erano cinque passaggi di grado, articolati in sottogruppi, fino ad arrivare al vertice, che per l’iniziato maschile era il lutumbo lwa kindi e per la donna il bunyamwa. I passaggi non avvenivano automaticamente ma mediante riti di iniziazione a volte pubblici, a volte segreti. Il bwami, di fatto, era la forza dominante nella cultura Lega e permeava tutte le sfere dell’esistenza individuale e comunitaria; presiedeva all’organizzazione sociale e religiosa, amministrava la giustizia, guidava la produzione artistica e definiva la filosofia complessiva dell’intero popolo. In questo contesto, le maschere rivestivano una grande rilevanza ed erano uno degli strumenti principali dell’iniziazione.A seconda della forma, grandezza e materiale, si dividevano in cinque tipologie: lukwacongo, kayamba, idimu, muminia e le piccole lukungu, in avorio o osso.




Maschera antropomorfa,
mumunia
Lega, Repubblica Democratica del Congo
Legno, fibre, h. 25,5 cm (al netto delle fibre)
Collezione Horstmann
Provenienza: I. Hersey

Questa tipologia di maschera tonda , piuttosto rara, denominata mumunia, era appannaggio della comunità del bwami ed interveniva nei riti di iniziazione in tutti i passaggi di grado. E’ caratterizzata da una decorazione puntiforme con un preciso significato simbolico conosciuto solamente dagli iniziati.


Maschera antropomorfa,
lukwakongo
Lega, Repubblica Democratica del Congo
Legno, pigmento, fibre, h. 18,5 cm (al netto delle fibre)
Collezione privata
Provenienza: J.-P. Lepage
©Archives Fondation Dapper – Photo: W. Kerremans

Quesa maschera, invece, è riferibile alla tipologia lukwacongo, è ricoperta di caolino e presenta una lunga barba di fibre vegetali. Connotata da un’intensa espressività, poteva essere posta sul retro della testa nel corso dei riti iniziatici.

Il mondo e l’organizzazione comunitaria dei Lega erano intrisi da un profondo senso etico, fatto di riti, simbologie ed eventi che governavano l’intera esistenza dell’individuo e della collettività.

Elio Revera

Si ringrazia la casa editrice Skira. Le infomazioni sono tratte da un mio lavoro pubblicato sul volume Ex AFrica. Storie e Identità di un’arte universale, Milano, 2019, (vedi: https://artidellemaninere.com/2019/02/27/ex-africa-storie-e-identita-di-unarte-universale/)