Ogni forma d’arte è anzitutto un linguaggio che esprime contenuti, significati, regressioni e slanci…ma, alla fine, quali sono le ragioni, le motivazioni principali che sottendono all’amore per l’arte primordiale, nel mio caso a quella sub-sahariana?
Certamente la bellezza estetica, la fantasia, sobria o allucinata, infinitivamente creativa, l’imprevedibilità delle forme e dei volumi, l’intrico errabondo dei vuoti e dei pieni, la patina erosa o sudante, l’espressività esasperata e feroce, ovvero tranquilla e sognante, delle maschere e delle sculture.
Fang Ritual in Lambarene, Gabon. Courtesy Jean d’Esme 1931
Certo, la storia e lo studio antropologico ed etnografico di una cultura tanto variegata, la sua continuità nel tempo e la persistenza del modello estetico, il suo autonomo statuto iconico, pur nelle sue infinite variazioni e declinazioni ( si veda https://artidellemaninere.com/?s=permanenza)
Di sicuro, tutto questo. Ma altro cova sul fondo e fatica a trovare una via d’uscita. Un’energia conturbate, sotterranea e squassante.
Provare a dare origine e nome a tutto questo è quasi impossibile perché le parole sbiadiscono al cospetto di tale energia. Ma d’altra parte è pur necessario dare forma letteraria ad un evento assai inesprimibile.
Una frase dei Guermantes di Proust, nella prima parte del libro, mi sovviene in aiuto
“Quell’arte – scrive lo scrittore riferendosi ad un suo trascorso slancio – si era fatta gracile ed esangue, priva dell’anima che l’aveva abitata”.

Per contrapposizione questa riflessione, rovesciata però, ben si attaglia alla descrizione di quell’inesprimibile prima evocato.
Un’arte, quella primordiale, affatto spogliata dall’anima che l’abitava, anzi, al contrario, ricca di quell’anima florida e pulsante perché espressione diretta dell’inconscio etnico collettivo (che esprime energia nella forma plastica delle maschere, delle sculture e perfino nei raffinati oggetti d’uso), ma che diviene evento di una teologia pagana avulsa da abusate classificazioni, perché origine ed originaria, allo stesso tempo, di propri e peculiari significati, valori e misteri.
Una complessa cosmogonia che si traduce in un’infinità di entità superiori in perenne lotta con le forze ostili della natura e della stregoneria e che si esprime anzitutto e precipuamente, attraverso il culto degli antenati, autentici custodi del benessere e della prosperità del clan.

Attraverso rituali, spesso segreti ed indecifrabili, la presenza dell’inconscio si palesa negli oggetti sacri all’uopo utilizzati che sono diretta espressione della forza dello spirito; non c’è distanza infatti, tra l’oggetto, lo spirito e la dimensione plastica della maschera e della scultura. Esse non sono la riproduzione dell’effige del sacro, come ad esempio i nostri crocifissi, bensì l’espressione diretta ed immediata del soprannaturale e del magico.
Il concetto di inconscio, tipico della cultura occidentale di fine XIX sec. , in questa realtà, va inteso come forza ed energia costitutive dell’etnia e mai dell’espressione dell’agire individuale; è il gruppo o meglio, la peculiare cultura etnica collettiva che esprime i propri contenuti all’interno di una consolidata ritualistica condivisa e riconosciuta.
Anche per questo motivo l’opera d‘arte africana non è mai del singolo individuo, sebbene la mirabile mano di qualche fabbro/scultore sia riconoscibile; l’eccelso artista però, anche in questo opera comunque al servizio della cultura etnica di appartenenza.
Mentre nell’arte occidentale, è la perizia dell’artista a determinare l’esito dell’opera, in quella tribale, al contrario, è l’adesione al canone culturale a risultare dominante, sia pure nelle mille variazioni dovute alla mano dello scultore.
Il rapporto diretto tra l’esecutore, l’oggetto e la sua funzione, fa sì che l’opera si esprima senza mediazione alcuna e risulti intimamente legata allo spirito creatore, cioè a quello che ho definito inconscio etnico collettivo.
La fascinazione insita in quella potenza ancestrale erompe con energia tellurica sul modello artistico/estetico che noi abbiamo conosciuto e studiato, lo disarticola e ci costringe a confrontarci con le infinite possibilità espressive che la mente umana, in ogni luogo, può concepire e creare.
Elio Revera