La designazione Kota indica vari gruppi etnici del Gabon, legati tra loro da una forte identità linguistica e culturale. Comune a tutto il popolo Kota è la grande tradizione funeraria che li accomuna ai Fang, da cui però li separa la concezione stilistica nella realizzazione delle figure da reliquario.
I Kota, infatti, impiegavano in modo massiccio il rame e l’ottone, in lamine e fili, per rivestire un’anima di legno.
Sull’argomento si veda https://artidellemaninere.com/2015/08/10/testa-e-croce-nelle-cultura-funeraria-kota/
E’ il caso di questi due mbulu-ngulu o mboy, nomi che designano questi oggetti, indispensabili per i culti funerari.
Kota reliquary with skulls, Gabon, photo C.S. Chauvet, 1930 ca.
Lo mbulu-ngulu era completato da un sottostante contenitore, in grado di accogliere i teschi ed i frammenti ossei degli avi del clan famigliare. In questo modo e in virtù di complessi riti, gli antenati erano costantemente presenti nell’esistenza dei viventi, garantendo loro protezione e sostegno.
I nostri due reliquari, pur assolvendo al medesimo compito, sono molto diversi, poiché la loro realizzazione è correlata sia all’epoca in cui sono stati creati, sia alle particolarità stilistiche dei singoli gruppi etnici che costituiscono il popolo Kota. Nella fattispecie, tutti e due appartengono alla tradizione dei Kota del sud, nello specifico al sttogruppo Obamba quello a destra, del Museum Fünf Kontinente di München (cm.58) ed al sottogruppo Ndasa quello in basso, ( cm.57), di una collezione privata.
Entrambi presentano sotto gli occhi brevi lamelle verticali, una particolarità piuttosto rara nei reliquiari Kota. Tre sono le possibili interpretazioni. La prima che si tratti di tatuaggi, come quelli che si trovano sul volto delle figure magico-religiose dei Teké del Congo-Brazzaville, di cui i Kota meridionali sono confinanti.
La seconda è che questi segni siano riferibili all’iconografia cristiana delle “lacrime”, pur senza alcun significato religioso, bensì come esito del tradizionale sincretismo dei popoli africani nel tradurre in forme artistiche autoctone gli stimoli provenienti da altre culture (https://artidellemaninere.com/2015/10/05/le-lacrime-del-kota/).
La terza interpretazione è che questi mbulu-ngulu non fossroe soltanto destinati a custodire e proteggere le reliquie degli antenati, ma che intervenisse anche in un altro ruolo, quello di permettere agli iniziati di accedere al mondo dell’invisibile. Sono infatti documentati riti che, facendo ricorso a polveri e sostanze urticanti, provocavano la lacrimazione degli occhi.
Elio Revera