La passata aggiudicazione multimilionaria del reliquiario Kota appartenuto a William Rubin, ha posto sotto i riflettori questo oggetto della tradizione funeraria dei Kota.
Ma cosa sappiamo precisamente di questo popolo?
Malgrado gli indispensabili approfondimenti di vari studiosi e tra questi E. Andersson, J.C. Andrault, L. Perrois, A.e F. Chaffin, I. Bolz, G. Delorme, J. Germain e Frederic Cloth con il suo approccio algoritmico/matematico, tante domande sono ancora senza risposta.
Assistiamo cioè al paradosso che di questo oggetto, forse il più conosciuto ed apprezzato in occidente per la sua seducente iconografia, tanto da essere collezionato anche da chi non ha l’arte africana tra i suoi principali interessi, conosciamo ben poco e quel poco, sovente, è soltanto il risultato di ipotesi e supposizioni.
Partiamo dal nome: Kota.
In realtà con questa definizione e con la definizione di Art Kota, si designano diversi raggruppamenti etnici caratterizzati da diversità ben marcate anche se appartenenti al medesimo ceppo linguistico culturale, quali i Bakota, Mahongwé, Shaké, Ndambomo, Shamaye a nord del fiume Ogooué nel Gabon orientale ed i Mindomou, Bakanigui , Bawumbu, Mindassa, Bakélé a sud, col bel risultato che i reliquiari tra i più apprezzati, appartengono ad un gruppo etnico meridionale, quella degli Obamba, che peraltro non si riconoscono appartenenti alla famiglia Kota.
Courtesy: L. Perrois, “Kota”, 2012, Vision d’Afrique, 5 Continents ed., Milano
Quando ha avuto inizio questa arte funeraria? Dove? Per iniziativa di chi? Secondo quali influssi stilistici e con quale evoluzione?
Perfino dettagli tecnico/tecnologici sono ancora avvolti nel mistero.
Come mai l’utilizzo impressionante, se non esclusivo, del rame e dell’ottone in una regione priva, o quasi, di giacimenti di cuprite? Da dove proveniva, allora questo metallo?
Come ha scritto Delorme,” les prospections que nous avons personnellement conduites dans ces régions pendant près de vingt ans n’ont donné aucun résultat positif ”. ( Réflexions sur l’art funéraire Kota).
Courtesy photo published in: Chauvet (Stephen), “l’Art Funéraire au Gabon”, Paris: Maloine, 1933: p. 2, #3.
Non è certo questa la sede per valutare questi interrogativi dal momento che sono disponibili diversi contributi in merito, sebbene, però, a taluni interrogativi la ricerca attuale non ha ancora fornito risposte decisive.
In questo mio scritto ciò che mi preme sostenere è una precisa tesi e cioè che l’evoluzione stilistica dell’arte funeraria dei Kota, a partire dal XVII/XVIII secolo, ed in particolare il motivo della croce realizzato con lamine di rame sul viso ovoidale del reliquiario (Mbulu Ngulu), è il risultato di due fattori preponderanti: l’incontro con la cultura religiosa cristiana e la sua conseguente diffusione e l’apporto massiccio del rame introdotto dagli europei in quelle regioni.
Ovviamente sono consapevole che il motivo cruciforme, come tanti altri stilemi, costituisce un archetipo appartenente alla cultura universale dell’umanità e di sicuro era ben presente in svariate rappresentazioni anche in Africa.
“L’ingegno umano, in culture cronologicamente e geograficamente molto differenziate, produce stilemi assolutamente sovrapponibili…
La croce appare nella simbologia rupestre, nelle terrecotte archeologiche, nelle tradizioni Tellem e Dogon arcaiche, nelle scarificazioni congolesi Pende, Chokwe … nelle costruzioni pittoriche dei visi e delle maschere, persino nello schematismo “ideale” dell’abbozzo scultoreo delle maschere presso la stragrande maggioranza delle etnie.” (Beppe Berna)
La peculiarità che caratterizza lo sviluppo dell’elemento cruciforme nella cultura Kota, peró, è la pressochè sua coincidenza con la diffusione della cultura religiosa europea in quelle terre e il suo radicamento in tutti i sottogruppi etnici con modalità praticamente esclusiva.
Per questo sostengo che il catalizzatore della diffusione iconografica della croce, evento che si è protratto per decenni, sia stata la cultura religiosa, proprio per il fatto che ha riguardato una vastissima area geografica e coinvolto tanti gruppi etnici di estrazione culturale e tradizioni a volte ben difformi.
A fini illustrativi, ho isolato dal volto ovoidale di alcuni reliquiari conosciuti l’elemento cruciforme.
E’ stato scritto che è ben difficile stabilire dove e quando è nata l’arte funeraria Kota. Verosimilmente nel X sec., epoca in cui pare sia iniziato l’utilizzo del poco rame prodotto localmente e si sia sviluppata gradualmente fino all’arrivo degli europei, avvenuto alla fine del XV sec. e poi successivamente per tutto il XIX sec.
I portoghesi, infatti, verso la fine del ‘400 arrivarono in Congo, ( il primo europeo a visitare il Regno del Congo fu l’esploratore portoghese Diogo Cão, che visitò la costa africana fra il 1482 e il 1483 ), spingendosi poi a nord verso il Gabon.
Nella Monumenta Missionaria Africana di Padre António Brásio (1471/1531), rivolta alla storia del Portogallo nella regione del Golfo di Guinea, è scritto che le coste del Gabon furono sotto la dipendenza dell’Arcivescovado di S. Tomé, fondato nel 1534 , il cui primo titolare fu D. Diogo Ortiz de Vihegas. (Recherches sur la présance portugaise au Gabon. Robert Reynard, in Bollettin Hispanique, Tome 57, N.4, 1955, pp 415/416).
E’ poi con il missionario francese Jean-Rémi Bessieux della Congregazione dello Spirito Santo, che nella prima metà del XIX secolo, si diffonde su larga scala l’evangelizzazione del Gabon (http://www.dacb.org/stories/gabon/f-bessieux_jeanremi.html).
Nel 1863 nasce il vicariato apostolico del Gabon, allora denominato delle Due Guinee.
Queste informazioni sono importanti nella definizione dell’influenza della cultura cattolica in quelle regioni, della sua progressiva penetrazione e radicamento nei territori che, giova ricordarlo, non erano appannaggio soltanto dei missionari, ma anche di marinai, commercianti, trafficanti, amministratori ecc… di origine europea e specificatamente, in primis, portoghese.
Nel XVI secolo alla presenza portoghese si aggiunse quella di mercanti inglesi, francesi e olandesi.
Tutta la letteratura in merito, quando approfondisce l’evoluzione dello stile dei reliquiari Kota, è concorde nel considerare con ogni probabilità i Mahongwé quali iniziatori di questa forma di arte, stante anche la lavorazione e la tecnica di decorazione con i fili di rame, forma questa diffusa nell’Africa pre-coloniale.
L’evoluzione stilistica successiva a quella Mahongwé circa i reliquari Kota. è quella dello stile denominato Shamaye .
Questi sono ritenuti gli stili originari e da essi derivano i successivi, chiamati con qualche approssimazione “classici”. Sono questi i reliquiari con il viso piatto/ concavo ed i successivi denominati semi-ronde-bosse (mezzo tondo) e ronde-bosse (tutto-tondo) o convesso, considerati più tardivi nell’evoluzione dello stile Kota.
“Quoique les types concave et convexe aient apparemment coexisté, il semblerait que ces premiers soient plus anciens (Perrois 1985:48), la concavité pouvant apparaître à la rigueur comme un trait archétypal dérivé de l’art mahongoué qui précede effectivement d’un tel schéma de construction” (J. Germain, AAN n. 117, 2001, p.19).
Giova ricordare, en passant, che in ogni caso già verso la metà del XIX sec. tutti gli stili Kota erano rappresentati e conosciuti (J. Germain); da qui in avanti non ci saranno altri sviluppi stilistici e l’utilizzo stesso dei reliquiari sarà meno diffuso per scomparire del tutto verso i primi decenni del XX sec.
Ritornando al nostra ipotesi, questo brevissimo excursus dell’evoluzione e classificazione dello stile Kota, peraltro già magistralmente definito da Perrois, Chauffin e Delorme, evidenzia un punto nodale.
Sia la produzione Maohngwé che quella Shamaye, circa il 17% di tutto il corpus conosciuto dei reliquiari, cioè quelle produzioni che hanno originato lo stile, non presentano in nessuna forma e con nessuna apparenza l’elemento cruciforme, presente al contrario nello stile “classico”, quello presumibilmente sviluppatosi a partire dalla metà del XVIII con la diffusione e la penetrazione dell’evangelizzazione cristiano/cattolica. (v. “Les travaux et les jours de la Mission Sainte-Marie du Gabon (1845-1880). Agriculture et modernisation” di Odette Tornezy in Revue française d’histoire d’outre-mer-Année 1984-Volume 71-Numéro 264 pp. 147-190)
In nessun modo i reliquiari iniziali suggeriscono la forma della croce; nulla rimanda a quell’elemento!
Ed allora perché tra le mille forme evolutive possibili, proprio la croce compare sui volti dei Kota “ classici” salvo nuovamente scomparire, almeno in parte, su quelli successivi ronde e demi-ronde?
Un caso? Una bizzarria dell’artista? Una coincidenza?
A mio parere, nulla di tutto questo.
Fosse stato un caso o la creatività di un artigiano, come spiegare la sua diffusione in tutto i territori Kota? Come immaginare che nessun altro fabbro potesse aver avuto l’idea di dare vita ad un’altra forma?
No, la presenza della croce sui volti dei Kota classici dipende a mio avviso da un unico elemento: la diffusa pregnanza della croce, della sua iconografia, nelle immagini, negli oggetti di culto, in tutto quell’apparato religioso della cultura cattolica che si radicava man mano in quei territori.
Questo, a mio parere, spiega la presenza dell’iconografia della croce sui visi astratti dei reliquari della generazione successiva ai Maohngwé e Shamaye.
Ovviamente tutto questo non significa affatto l’attribuzione di un sia pur recondito significato religioso cattolico ai Kota; niente di tutto ciò se non l’innato sincretismo della creatività dei popoli africani che spesso hanno tradotto in forme artistiche autoctone gli stimoli provenienti da altre culture che evidentemente avevano colpito la loro fantasia ed immaginazione.
La diffusione poi a partire dal XVII sec. del rame dell’Angola in particolare, introdotto via via massicciamente dagli europei, prima portoghesi, poi olandesi, inglesi, tedeschi e francesi ed il cui apice fu nel XIX sec., ha favorito la creazione e la realizzazione dei reliquiari Kota; mano a mano i fabbri hanno affinato la tecnica di lavorazione, non disdegnando affatto il raro e pregiato rame rosso locale e passando anche all’utilizzo di lamelle e lamelle lavorate a guisa di fili, invece del filo di rame originariamente utilizzato dai Maohngué e Shamaye.
Non è il caso qui di sottolineare come l’evoluzione dello stile non è da intendersi in modo lineare e meccanicistico: spesso gli stili si compenetrano, si amalgamano e non è difficile riscontare nello stesso raggruppamento etnico, la presenza di stili diversi.
Rimane da interpretare la quasi scomparsa dell’elemento cruciforme negli stili evolutivi considerati più tardivi, quelli ronde e semi-ronde.
A mio avviso per un motivo di ordine pratico e percettivo. La croce quale elemento iconografico di novità, ha cessato di essere tale fin dall’inizio del XIX sec. stante la diffusione della cultura cattolica in quei territori; a questo punto, la creatività dei fabbri Kota si è rivolta ad altri stimoli e ha dato vita a quello stile “convesso” che è ritenuto da tutta la letteratura l’ultimo dello sviluppo stilistico/ artistico dei Mbulu Ngulu Kota.
Hunters Obamba photographed by E. Andersson
In conclusione, voglio porre l’attenzione su di un elemento certamente secondario, ma non per questo degno di minore attenzione.
Esistono rari, anzi rarissimi reliquiari “classici”, ma anche convessi, che presentano il motivo definito “en larmes”, cioè reliquiari in lacrime.
Questi reliquiari presentano sotto gli occhi una o due strisce verticali di colore e lavorazione diversa dal resto del viso che effettivamente paiono delle lacrime. L’interpretazione corrente è che si tratti della rappresentazione di incisioni rituali.
Io non concordo con questa affermazione.
Anzitutto perché queste “lacrime” se rappresentassero delle incisioni rituali sarebbero ben più diffuse su tanti reliquiari ed invece, come detto, sono rarissimi gli esemplari che le contemplano.
Non sono certo il frutto del caso o dell’invenzione estemporanea perché, per quanto rare, sono comunque riscontrabili in diversi reliquiari di stili diversi.
La mia personale interpretazione, e sottolineo interpretazione, è che quelle linee verticali poste sotto gli occhi, rappresentino realmente delle lacrime o in alternativa dei fiotti di sangue quali quelli visibilissimi in tutta l’iconografia cristiano medioevale, specie dei paesi del centro Europa, ma anche in quelli latini.
Credo che queste immagini, (Leonard Limousin, Mathis Grünewald ed Antonello da Messina), così veriste e dirette che rappresentavano lacrime e fiotti di sangue sul volto e sul corpo di Cristo sulla croce, fossero patrimonio iconografico dei missionari e dei religiosi e che da loro venisse utilizzato nella quotidiana liturgia cristiana.
Tali immagini, io penso, abbiano realmente impressionato i locali al punto da indurli a rappresentarle secondo i propri canoni sui loro reliquiari. Di conseguenza, ritengo che per questi reliquiari si possa ipotizzare a ragion veduta una forte anzianità stante l’indelebile impressione suscitata inizialmente da quelle immagini che naturalmente, nel tempo, si è stemperata, come accade parimenti per ogni novità.
Mbulu Ngulu “en larmes” di tipo “classico”. Area culturale del sottogruppo etnico dei Mindassa o Obamba, Kota del sud, regione di Mounana. Prob. inizio XIX sec. Ex coll. Arman, New York.
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Elio Revera
Per altre referenze bibliografiche rimando ai mirabili lavori degli autori citati nel testo.
English version
Head And Cross in the burial culture of Kota.
The recent award of the multimillion Kota reliquary belonged to William Rubin, it has put the spotlight this issue in the funerary tradition of Kota.
But what do we know precisely of this ethnic group?
Despite the essential insights of various scholars and among them E. Andersson, JC Andrault, L. Perrois, Ae F. Chaffin, I. Bolz, G. Delorme, J. Germain and Frederic Cloth, many questions are still unanswered.
Ie we are witnessing the paradox that this item, perhaps the best known and appreciated in the West for its seductive iconography, as to be collected even by those who have African art among his main interests, we know very little and that little, often , it is only the result of assumptions and guesses.
We start with the name: Kota.
In fact with this definition and the definition of Art Kota, you designate different ethnic groupings characterized by diversity clearly marked even if they belong to the same linguistic family culture, which Bakota, Mahongwé, Shake, Ndambomo, Shamaye north of the river Ogooué in Gabon Eastern and Mindomou, Bakanigui, Bawumbu, Mindassa, Bakélé south, with good result that the relics of the most popular, belong to an ethnic group in southern, that of Obamba, which does not recognize members of the family Kota.
When did this Cemetery? Where? To whose initiative? According to such stylistic influences and how evolution?
Even technical / technological are still shrouded in mystery.
Why use impressive, if not exclusive, brass and copper in a region-free, or nearly so, of deposits of cuprite? Where it came from, then this metal?
As written by Delorme, “que nous avons les prospections personnellement conduites dans ces régions pendant près de vingt ans donné n’ont aucun résultat positif”. (Reflections on the Art funéraire Kota).
This is certainly not the place to evaluate these questions since there are several contributions about, although, however, to certain questions, current research has not provided conclusive answers.
In my writing what I would argue is a clear thesis, namely that the stylistic evolution of funerary art of Kota, in the seventeenth / eighteenth century, and particularly the reason of the cross made with copper foils on the face oval the reliquary, is the result of two overriding factors: the encounter with the Christian religious culture and its subsequent spread and the massive inflow of copper introduced by Europeans in those regions.
Obviously I am aware that the reason cruciform, like many other styles, is an archetype belonging to universal culture of mankind and certainly was very much present in several representations in Africa.
“Human ingenuity, in cultures chronologically and geographically very different, produces absolutely overlapping styles …
The cross appears in the symbolism rock, in archaeological pottery, archaic traditions Tellem and Dogon, in scarification Congolese Pende, Chokwe … kings-of-africa in construction painting faces and masks, even in the schematic “ideal” of the sketch of the sculpture masks at the vast majority of ethnic groups. “(Beppe Berna)
The uniqueness of the development cruciform element in the culture Kota to, however, is its almost coinciding with the spread of European religious culture in the land and its roots in all ethnic subgroups with virtually exclusive mode.
Why I maintain that the catalyst of the spread iconography of the cross, an event that has lasted for decades, it was the religious culture, precisely because it covered a wide geographical area involved and the many ethnic groups of cultural backgrounds and traditions sometimes well dissimilar.
It ‘was written that it is very difficult to determine where and when did the Cemetery Kota. Probably in the tenth century., By which time it seems to have started to use the little copper produced locally and has developed gradually until the arrival of Europeans, which occurred in the late fifteenth century. and even later
The Portuguese in fact towards the end of ‘400 arrived in the Congo (the first European to visit the Kingdom of Congo was the Portuguese explorer Diogo Cao, who visited the African coast between 1482 and 1483) then pushing north towards Gabon.
Monumenta in African Missionary Fr. Antonio Brasio (1471/1531), addressed to the history of Portugal in the Gulf of Guinea, has written that the coast of Gabon were under the dependence of the Archbishop of San Tomé, founded in 1534, whose first owner was D. Diogo Ortiz de Vihegas. (Recherches sur la présance portugaise au Gabon. Robert Reynard, in Bulletin hispanique, Tome 57, Ranked # 4, 1955, pp 415/416).
The French missionary Jean-Rémi Bessieux of the Congregation of the Holy Spirit, in the first half of the nineteenth century, develops large-scale evangelization of Gabon (http://www.dacb.org/stories/gabon/f-bessieux_jeanremi.html).
In 1863 he born the apostolic vicariate of Gabon, then called the Two Guineas.
This information is important in the definition of the influence of Catholic culture in those regions, its gradual penetration and rooting in the territories, it should be remembered, were not the prerogative only of missionaries but also of sailors, merchants, traders, administrators, etc … Source European and specifically, in the first place, the Portuguese.
In the sixteenth century the Portuguese presence is added to the merchants of British, French and Dutch.
All the literature about when deepens the evolution of the style of the Kota reliquaries, agrees to consider probably the Mahongwé as instigators of this art form, given also the processing and decoration technique with copper wires, shape this widespread in Africa pre-colonial.
The stylistic evolution after the one Mahongwé about Kota reliquaries. is that of the style called Shamaye.
These are believed to be the original style and derive from them the next, with some approximation called “classic”. These are reliquaries with the flat face / concave and subsequent called semi-ronde-bosse (half round) and ronde-bosse (all-round) or convex, considered more late in the evolution of the style Kota.
“Quoique les types concave et convexe aient apparemment coexisté, il semblerait que ces premiers soient plus anciens (Perrois 1985:48), la concavité pouvant apparaître à la rigueur comme un trait archétypal dérivé de l’art mahongoué qui précede effectivement d’un tel schéma de construction” (J. Germain, AAN n. 117, 2001, p.19).
To recall, in passing, that in any case by the middle of the nineteenth century. Kota all styles were represented and known (J. Germain); from now on there will be no other stylistic developments and the use of the same relics will be less widespread to disappear completely into the first decades of the twentieth century.
Returning to our hypothesis, this brief overview of the evolution and classification of style Kota, however masterfully defined by Perrois, Chauffin and Delorme, highlights a key point.
Both production Maohngwé that the Shamaye, about 17% of the entire corpus of known reliquaries, those productions that originated the style, not present in any form or by any appearance cruciform element, in contrast to this “classic “, that presumably developed from the middle of the eighteenth with the spread and penetration of the religious culture Christian / Catholic
(v. “Les travaux et les jours de la Mission Sainte-Marie du Gabon (1845-1880). Agriculture et modernisation” by Odette Tornezy, Revue française d’histoire d’outre-mer-Année 1984-Volume 71-Numéro 264 pp. 147-190).
In no way reliquaries initial suggest the shape of the cross; nothing points to that element!
And then because of the many possible forms of evolution, just the cross appears on the faces of Kota “classic” subject again disappear, at least in part, to successive rounds and demi-ronde?
A case? A quirk of the artist? A coincidence?
In my opinion, none of this.
It was an accident or the creativity of a craftsman, how to explain its spread throughout the territories Kota? How to imagine that no other locksmith might have had the idea of giving life to another form?
No, the presence of the cross on the faces of Kota classic depends in my opinion only one item: the widespread significance of the cross, his iconography, in images, objects of worship, all that apparatus religious Catholic culture that took root as in those territories.
This explains the presence of the cross on the faces abstract iconography of reliquaries of the next generation and to Maohngwé Shamaye.
Obviously this does not mean the assignment of an albeit hidden religious meaning to the Catholic Kota; none of this if not the syncretism of the innate creativity of the African peoples who have often translated into art forms indigenous knowledge from other cultures who had obviously hit their creativity and imagination.
The spread then in the seventeenth century. Copper Angola in particular, introduced by Europeans, first the Portuguese, then the Dutch, British, German and French whose apex was in the nineteenth century., has favored the creation and implementation of Kota reliquaries; As locksmiths have refined the technique of processing, not forgetting the rare red copper local and passing to the use of plates and strip worked like a wire instead of copper wire originally used by Maohngué and Shamaye.
There is no need here to stress that the evolution of style is not to be understood in a linear and mechanistic: often the styles mingle, merge and it’s not hard rediscount same ethnic grouping, the presence of different styles.
It remains to interpret the near disappearance element cruciform styles evolutionary considered more late, those rounds and semi-patrols.
I think for one reason practical and perceptive. The cross which iconographic element of novelty, has ceased to be from the beginning of the nineteenth century. given the spread of Catholic culture in those territories; At this point, the creativity of blacksmiths Kota turned to other stimuli and has created that style “convex” considered the last of the artistic development of Kota.
In conclusion, I want to focus on an element certainly secondary, but not worthy of less attention.
There are rare, indeed very rare reliquaries “classic”, but also convex, presenting the reason called “en larmes”, that is, reliquaries in tears.
These shrines are under the eyes one or two vertical strips of color and processing different from the rest of the face and actually seem to tears. The current interpretation is that it is the representation of engravings rituals.
I do not agree with this statement.
First, because these “tears” if they represented incisions rituals would be far more widespread on many reliquaries and instead, as mentioned, there are very few examples that contemplate.
Are certainly not the result of chance or impromptu invention because, however rare, are still found in many reliquaries of different styles.
My personal interpretation, and I stress interpretation, is that those tears genuinely represent tears or alternatively the streams of blood such as highly visible throughout the medieval Christian iconography, especially the countries of Central Europe, but also in Latin.
I think these images, so direct and veristic representing streams of blood and tears on the face and body of Christ on the cross, were iconographic heritage of missionaries and religious and that they were used in everyday Christian liturgy.
These images, I think, have really impressed the local to the point of inducing them to represent them according to their canons on their shrines. Accordingly, I believe that for these reliquaries one can assume with good reason a strong seniority because of the indelible impression made initially by those images which of course, in time, it is diluted, as also happens with anything new.
Elio Revera
Bibliography back up the wondrous works of the authors mentioned in the text.