Giusto duecento anni fa, nel 1817, un giovane ufficiale francese diede alle stampe un libro dal titolo emblematico di Roma, Napoli, Firenze.
Marie-Henri Beyle, che poi il mondo intero conoscerà con lo pseudonimo di Stendhal, narra in questo volume di un curioso episodio che ebbe a capitargli durante la visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, quando fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte aveva scatenato nel suo animo.
Uno strano malessere, un misto di nausea, palpitazioni e capogiri accompagnato da un lieve stato confusionale…insomma, quella patologia psicosomatica chiamata appunto da allora Sindrome di Stendhal, causata dall’incontro ravvicinato con l’arte e la bellezza.
Di sicuro il grande scrittore francese, malgrado il suo amore per l’Italia ed i suoi tesori d’arte, ignorava quel che secoli prima il genio assoluto e visionario di Leonardo da Vinci, aveva apposto su di un foglietto con il quale un’opera velata si rivolge direttamente al potenziale ammiratore:
“Non iscoprire se libertà / t’è cara chè’l volto mio / è charciere d’amore”
Era usanza allora di velare alcuni quadri per poi scoprirli in occasione di feste comandate, ma il monito dell’opera al visitatore è perentoria, illuminante e magnifica: non guardarmi se ti è cara la tua libertà!
Belle Ferronnière, olio su tavola (63×45 cm), Leonardo da Vinci, 1490/1495, Louvre
Siamo infatti noi osservatori a guardare le immagini o sono esse che ci osservano col loro sguardo, come ha scritto Paul Klee nel 1924, rammentandoci lo statuto autonomo, attivo e potente delle immagini stesse?
Non è certo questa la sede per una ricostruzione storica e critica della teoria e del significato delle immagini, storia che è al centro del pensiero occidentale da Platone ad Hegel, da Kant ad Adorno, Lacan e via via fino ai nostri giorni, ma quel che è necessario precisare, prima di continuare, è che per immagini intendo esattamente quel che intendeva Leon Battista Alberti nel 1400, secondo il quale si ha un’immagine dal momento in cui qualsivoglia oggetto naturale, vegetale o minerale, mostri un minimo di rielaborazione umana.
In questo lavoro pertanto, non sono comprese tutte quelle immagini naturali, come quelle disegnate ad esempio dalle nuvole o dall’intrico di rami e foglie, che non abbiano subito il benché minimo intervento dell’uomo (le cosiddette immagini acherotipe).
L’efficacia attiva delle immagini si configura come un vero e proprio atto iconico la cui mirabile definizione è stata data da Horst Bredekamp (2010), “ l’atto iconico consiste nell’individuare la forza che consente all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza all’efficacia esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero e del comportamento. In tal senso, l’efficacia dell’atto iconico va intesa sul piano percettivo del pensiero e del comportamento come qualcosa che scaturisce sia dalla forza dell’immagine stessa sia dalla reazione interattiva di colui che guarda, tocca, ascolta.”
“Tu vivi e non mi fai nulla”, annota Aby Warburg in un aforisma a margine di un suo lavoro sulla psicologia dell’arte che mai sarà pubblicato, cogliendo l’intera potenza dell’atto iconico, la sua tremenda efficacia sull’io individuale, sul pensiero e sul comportamento.
Cultura Lobi, Costa d’Avorio, part. della testa
Se l’intera problematica dell’atto iconico attraversa il pensiero e cultura occidentale, non di meno questo tema è al centro delle immagini di quell’arte che per pura, miserabile convenzione è definita arte tribale.
Mumuye, Vaa Bong masquerade, Pantisawa, Middle Benu Nigeria. Photograph by Arnold Rubin, April 1970
Proprio questo è lo scopo del presente lavoro: come in altre occasioni, il mio intendimento è riscattare l’immaginario primitivo da ogni sorta di arbitrario atteggiamento, malcelata insofferenza ed ostile pregiudizio che spesso connotano le riflessioni di pur validi intellettuali maldisposti a tributare il medesimo rispetto a culture non occidentali.
Senufo, Kponiugo or Kopnyungo mask, Ivory Coast Mali and Burkina Faso.
L’arte tribale, le immagini dell’arte tribale, sono al medesimo modo di quelle occidentali, tributarie di uno statuto iconico parimenti significativo ed in certi casi, come si vedrà, ben più potente e vivificante di quelle della nostra cultura, dal momento che in esse, prepotente è l’influsso del legame con il mondo dell’invisibile e del sacro.
Se infatti le immagini del mondo religioso occidentale sono essenzialmente la rappresentazione iconica del divino, quelle tribali sono esse medesime il divino, nel senso che il legame con le forze dell’invisibile le elevano ad oggetti sacri in sé, potenti mediatori tra la caducità umana e la natura, la vita quotidiana e le forze primordiali dell’imperscrutabile.
Lwena performer, first half of 20th Cen, Zambia, photographer unknown
Sul tema dell’immagine/immaginario sono già intervenuto in passato, https://artidellemaninere.com/2015/01/13/immagineimmaginario/, ma in quel caso, era mia intenzione valutare e definire il rapporto tra oggetto e sua rappresentazione fotografica.
In questa prima parte di un lavoro che intendo proseguire anche in futuro, il tema è invece quello della definizione dello statuto autonomo dell’atto iconico tribale, vale a dire, dell’approfondimento e della concettualizzazione della teoria delle immagini primitive in cui esse appaiano come protagoniste attive e non semplicemente come oggetto di complemento esotico, bizzarro e sostanzialmente incomprensibile.
Elio Revera
Dominique Zinkpé, Intrigues nocturnes, acrilico e tecnica mista su tela, 180×150 cm, 2006