Un tema, a mio parere, non sufficientemente indagato è quello del rapporto tra l’immagine dell’oggetto tribale e l’oggetto medesimo, tra l’apparenza dell’oggetto e la sostanza dell’oggetto, per così dire!
Ed a questo proposito mi pare di ricordare che fu comunque grazie alla sensibilità di occhi fotografici che sia l’impressionismo che l’arte tribale hanno potuto avere un loro primo palcoscenico.
Fu infatti nello studio del fotografo Nadar, sul Boulevard des Capucines a Parigi nell’aprile del 1874, che fu ospitata la prima mostra collettiva dei pittori impressionisti,
Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Morisot, Degas, Cézanne e Renoir e l’esposizione di Alfred Stieglitz nella sua Galleria 291, sulla Fifth Avenue 291 di N.Y., Statuary in wood by African Savages: the Root of Modern Art, 1914, fu, allo stesso modo, una delle prime esposizioni di arte “negra” anche se credo che negli anni precedenti, un paio di esposizioni minori furono allestite sia in Germania che in Francia. (http://www.wsj.com/articles/SB10001424127887323723104578187310562046712)
Sarà un caso, ma la sensibilità di tutti e due quei tipetti, Nadar e Stieglitz, si era forgiata in continenti diversi, sull’obiettivo della macchina fotografica.
Forse una casualità, ma certamente anche il genio di due artisti, il cui specifico era cogliere l’essenza delle cose e trasformarla in immagine.
Due alchimisti dell’era premoderna, novelli Faust, anticipatori di un’epoca che ha fatto dell’immagine il suo autentico, adorato o vilipeso feticcio. (Qui un’interessante conversazione al Met, sui primordi del Primitivismo e l’Arte Contemporanea a N.Y.: https://www.youtube.com/watch?v=wXPM6SqD_Mo)
Per comprendere un problema, è necessario prima tentare di delinearne i confini…non per imprigionare la realtà, ma per delimitare il campo della ricerca.
In questa mia riflessione che intende indagare il rapporto tra immagine e oggetto, i confini sono delineati dalle due immagini di seguito pubblicate.
Scilla e Cariddi in un arco temporale di quasi un secolo, le immagini si riferisco infatti al testo di J. Maes del 1935 ed a una fotografia di Mario Carrieri di oggi.
A scanso di fraintendimenti preciso che questo articolo non riguarda specificatamente l’immagine fotografica, cioè la storia fotografica degli oggetti tribali, bensì, lo ripeto, il rapporto tra oggetto e sua rappresentazione iconografica.
L’osservazione delle due immagini successive racchiude, come detto, tutta l’evoluzione del rapporto Immagine/Oggetto.
La prima, quella di Maes, Annales du Musée du Congo Belge, è una rappresentazione funzionale a due aspetti: documentazione e spiegazione.
Documentazione dell’esistenza dell’oggetto ed illustrazione del testo che dà conto di cosa trattasi l’immagine stessa.
La seconda, quella di Carrieri, è assolutamente svincolata dalle due caratteristiche didascaliche sopra citate e punta unicamente alla stupefazione, all’impressione psicologica, all’evocazione immaginifica. Non ha bisogno di testo, di spiegazioni, di contestualizzazioni. Esiste in sé, senza tempo e senza storia così come il mondo delle emozioni.
Da un lato è necessario “spiegare”.…dall’altro “impressionare” !
In meno di un secolo, l’immaginario collettivo si è trasformato radicalmente e dalla necessità di conoscere è trapassato al bisogno di incanto.
L’immaginario collettivo o comune sentire su uno specifico tema, non è il risultato di miracolose congiure cosmiche, bensì il progressivo slittamento della sensibilità verso una comune condivisione.
Un processo dialettico, in continua progressiva evoluzione o involuzione…dipende dai punti di vista !
Fatta sta che ora, la sensibilità del collezionista di arte tribale è disponibile ad accettare, anzi chiede, immagini forti, potenti, evocative…
Educata sui sacri testi, dopo aver visionato mostre e musei, oggi pretende immagini che non siano destinate unicamentea spiegare, ma anche ad evocare, a far sognare.
E’ giusto ? E’ sbagliato…poco importa…il mio è un giudizio di fatto non una valutazione di merito!
Personalmente non sono affatto contrario all’interpretazione artistica dell’oggetto fatta da un capace fotografo o cineasta; credo anzi che questo possa giovare sia all’oggetto che al collezionista ad eccezione, però, di un uso manipolatorio ed ingannevole della buonafede e dell’inesperienza.
Non si dimentichi che l’immagine costituisce il primo contatto con l’oggetto e non può sostituire in alcun modo la sua visione diretta.
E certamente la distanza, lo iato tra l’immagine di un oggetto e l’oggetto reale, si son fatti più grandi negli ultimi decenni, ed è questa, in buona soatanza, la misura di una creatività applicata all’oggetto.
L’artista tribale e quello tecnologico odierno possono certamente interagire e raccontarsi il loro meglio, a tutto vantaggio dei fruitori che amano quell’arte, ma che intendono, altresì, studiarla ed approfondirla in tutte le sue possibili valenze.
Elio Revera