Storia e storiaccia

In questo lavoro mi ricollego a temi che ho già indagato relativi alla valutazione della qualità ed all’ermeneutica simbolica delle opere d’arte tribali (https://artidellemaninere.com/2014/11/08/la-qualite-cet-obscur-objet-de-desir-a-la-recherche-de-la-qualite/ e https://artidellemaninere.com/2016/08/18/version-francaise-lirreductibilite-french-version/).

Tenterò di rispondere a questa domanda: come si guarda un oggetto tribale?

La distanza temporale, geografica e soprattutto antropologico-culturale di tali oggetti, pone una serie di interrogativi che devono trovare risposta se non si vuol cadere in una visione eurocentrica o, per meglio dire, in una visione estetica post-colonialista.

Il tema così esplicitato è quello che il  filosofo tedesco  Hans- Georg  Gadamer   (1900-2002)  ha posto al centro della sua riflessione,  in particolare sull’estetica.

A parere di Gadamer, il problema dell’incontro o della «mediazione» fra il mondo originario dell’opera e il mondo dell’interprete-fruitore, non è eludibile ed a suo parere, di conseguenza,  «l’estetica deve risolversi nell’ermeneutica» vale a dire, la fruizione dell’opera d’arte comporta, ad un certo punto, il problema più generale della sua interpretazione. (Verità e metodo, 1960)

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 Rütimeyer, L. Weitere Mitteilungen über West-Afrikanische Steinidole, 1908.

L’esperienza dell’arte in Gadamer è tale quando è vissuta in profondità e suscita un cambiamento nelle prospettive di chi la vive, sia esso spettatore sia esso artista: si tratta di un evento, di un’esperienza di verità, nel senso hegeliano di esperienza, che modifica il soggetto.

In sintesi, si può affermare a questo proposito che, se l’incontro con l’opera d’arte è capace di segnare profondamente la vita di una persona, rappresentando per esempio l’inizio di un rinnovamento nel suo modo di vedere il mondo e di atteggiarsi in esso, non si può però liquidare l’opera mediante il concetto di incanto, sogno, apparenza.

L’incontro con l’opera d’arte è ben altro che il perdersi estaticamente in un mondo di sogno, ma è piuttosto un effettivo riaggiustamento di tutto il nostro modo di esistere: “l’esperienza estetica è un modo dell’autocomprensione”, una forma di esperienza, di conoscenza.

Per Gadamer, e qui il filosofo fa riferimento ad Hegel,  l’arte è dunque un’esperienza di verità ed il rapporto con il passato non va inteso  come meramente ricostruttivo, ma come integrativo, ovvero come necessariamente mediato dalla storia.

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Bakuba Masqueraders, Belgian Congo, Circa 1930’s.

La fruizione artistica diventa allora problema della mediazione tra questi due mondi, il mondo dell’opera e il mondo del lettore, e cioè un problema ermeneutico concernente proprio il tema dell’integrazione tra questi due mondi.

 Essenziale in questo processo è pertanto il processo interpretativo.

Tornando alla nostra domanda iniziale, di conseguenza, l’arte tribale va essenzialmente interpretata e non soltanto guardata.

E’ così infatti,  che intendo l’esortazione di Gadamer circa la necessità di integrare il mondo dell’opera con il mondo del lettore, il manufatto e l’osservatore, lo sguardo tribale e quello occidentale, senza pregiudizi, né riserva mentale alcuna.

Ciò non sminuisce affatto la valutazione estetica, peculiare dell’approccio critico occidentale: semmai è proprio dall’incontro di questi due mondi, interpretativo e valutativo, da cui sgorga , a mio parere, il corretto approccio col mondo artistico tribale.

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Bamum dancers of the royal court. Foumban, Cameroon Circa 1930.

E quando l’interpretazione è difficoltosa ed improbabile per l’assenza di quella conoscenza che è impossibile da reperire, stante l’assenza di fonti e ricerche originarie?

E’ noto che l’intera cultura dell’Africa nera si è sviluppata senza la scrittura dei nativi e che le fonti di conoscenza sono il risultato delle ricerche di storici, antropologi, curatori museali… oltre, ovviamente, alle testimonianze scritte di antichi viaggiatori, coloni e religiosi.

A mio parere, questo scoglio, al di là delle buone intenzioni e la lena di valenti studiosi, è destinato per tanti aspetti a rimanere tale.

Il significato profondo di alcuni riti e degli oggetti ad esso appartenuti, in assenza di testimonianze attendibili,  non potrà di conseguenza essere svelato.

E allora? Non è certo utilizzando quella “coscienza magica” giustamente stigmatizzata da Haim Baharier che si potrà risolvere la questione!   Vale a dire con l’impiego di quello spirito apparentemente critico che non conosce dubbi e che in definitiva nega ogni interpretazione.

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Bobo Masquerader in Dédougou, Burkina Faso. ca. 1911 Ethnographic Museum Berlin

Tutti ricordiamo la ricostruzione stupefacente ed affascinante di Marcel  Griaule della cultura del popolo Dogon attraverso le rivelazioni del vecchio cacciatore Ogotemmeli, una sorta di Omero del deserto, io narrante dei miti e delle leggende del suo popolo. Tutti noi apprezziamo la prosa e la scrittura del grande esploratore/etnologo francese. Ma quanti di noi sono disponibili a considerare del tutto realistiche e veritiere quelle narrazioni?

Pochi credo, anche se questo nulla toglie al fascino ed al piacere della lettura  del Dieu d’eau che ho scoperto anni fa nella magnifica traduzione di uno dei grandi filosofi viventi, Giorgio Agamben, Dio d’acqua, 1972 (http://www.iep.utm.edu/agamben/).

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Dogon Masquerader, Mali, Mid 20th Cen, mask del coccodrilloPhotoghrapher unknown.

Per questo, a parer mio, arrestarsi sulla soglia dell’inconoscibile non costituisce affatto la rinuncia ad apprezzare la bellezza di un’opera remota; fermarsi su quella soglia, al contrario, è la massima forma di rispetto per quanti la realizzarono e la consacrarono nei loro riti originari.

Ma questo significa altresì continuare ad approfondire la ricerca, la storia di quell’oggetto, con spirito libero ed appassionato, sfuggendo quelle immaginifiche ricostruzioni, quei tentativi di parodia fasulla quanto ridicola, opera sovente, ahimè, di interessati operatori pseudo-culturali non distanti da un infimo sottobosco  commerciale.

Tante sono purtroppo le modalità di falsificare un oggetto di arte tribale, non ultimo quello di alterarne il significato nel tentativo di approdare ad esiti stupefacenti quanto incongrui.

Tutto questo infatti, è ben lungi dalla ricostruzione della sua storia quanto prossimo a quello di una storiaccia.

Elio Revera

Dan Ritual, Ivory Coast, 1950’s. Photographer Unknown.

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