L’homme qui était sorti de notre mémoire avant d’y entrer

Questa espressione di David Bennet (1980), L’uomo che è stato dimenticato prima di essere ricordato, riassume e concentra in modo plastico ed efficace, la percezione dell’arte tribale nella cultura dell’occidente.

In altre sedi ho sottolineato una serie di luoghi comuni anche se purtroppo ben radicati, relativi ad una arte che si fregia di questo statuto soltanto da alcuni decenni.

Manufatti senza storia, senza tempo, sempre identici a sé medesimi, realizzati da ignoti artigiani, lontani dal tempo e dalla storia, espressione inintenzionale di una ripetitiva creatività risultato di esperienze non evolutive…

Queste ed altre amenità hanno costellato la storia dell’arte tribale e non è affatto detto che ancora non dimorino in vasti strati della percezione e della cultura occidentali.

Nel migliore dei casi, di tali manufatti era apprezzata l’originalità, a volte il rimando simbolico, difficilmente la valenza estetica.

 

Ibibio 1905 foto CH. Partridge

Ibibio, Nigeria,  1905, photo CH. Partridge

 

Del resto, a mio parere, una cultura nata e cresciuta nell’alveo ellenistico/romano non disponeva di validi criteri interpretativi di una realtà tanto lontana non soltanto geograficamente, ma soprattutto psicologicamente e culturalmente.

Fu infatti la sensibilità di artisti a loro volta marginali per definizione a scoprirne la valenza formale nei primi decenni del secolo scorso, anche se il loro interesse era del tutto rescisso dalla comprensione del significato simbolico ed antropologico. A loro, avanguardie artistiche, interessava la portata delle forme e dei volumi e questo è del tutto comprensibile!

Questa modalità di leggere le creazioni primitive, vale a dire, una modalità sostanzialmente immediata e formale, ha relegato l’arte tribale in un limbo imprecisato tra le curiosità esotiche e la bellezza casuale, inibendo ogni argomentazione ermeneutica sul loro valore estetico e significato etnografico e simbolico.

E’ peró con questa duplice chiave di osservazione, estetica ed antropologica, che è possibile comprendere o almeno avvicinarsi a comprendere la valenza storico/artistica dei manufatti tribali.

 

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Del resto, a mio modo di vedere, anche l’arte occidentale dei secoli scorsi necessita di approccio non eminentemente formale/estetico come avviene nella stragrande maggioranza dei casi: chi si chiede infatti, quale sia stato, per esempio, l’ambiente culturale e sociale in cui sono nate le opere di Giotto? Oppure di Vermeer o di Goya, per citare soltanto tre sommi giganti dell’arte europea?

Forse che un approccio storico e sociale non gioverebbe alla comprensione ed all’apprezzamento di quei capolavori?

E di conserva, lo sganciamento dai criteri meramente etnografici in riferimento alla lettura delle opere tribali, non è una forse una necessità ed un’impellenza per capirne la portata artistica?

Un approccio estetico infatti, accanto a quello antropologico, è la sola possibilità di venire a capo di situazioni che non rasentino l’improvvisazione, il dilettantismo ed il pregiudizio.

La costruzione di un’ermeneutica simbolica ed artistica che muova dal contesto antropologico originario, ma che indaghi altresì il contesto estetico in cui sono state generate quelle forme, è la sola possibilità a mio parere, per la definizione dei parametri di una seria valutazione artistica.

Come in ogni creazione umana, infatti,  ampia è la gamma dei giudizi possibili per valutare un’opera: e non fanno certo eccezione le opere tribali che ovviamente possono essere orrende o sublimi!

Ma senza questa ermeneutica interpretativa tutto si confonde in una piatta uniformità che innalza ciò che bello non è affatto e degrada, al contrario, quello che meriterebbe ben altra considerazione.

 

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Group of Songye photographed in the Congo in 1934 – Illustration Congolaise

La conseguenza di tutto questo è sotto gli occhi di tutti: esposizioni istituzionali di copie o tuttalpiù risibili manufatti spacciati per eventi culturali; la proliferazione di falsi ad ogni livello; la commercializzazione di indegni sottoprodotti artigianali come fossero opere culturali; l’ipertrofia delle provenienze e/o di sciocche pubblicazioni realizzate all’uopo; la divisione dei manufatti soltanto in base a criteri meramente economici; l’arbitrio di chicchessia di elevarsi ad esperto e via e via…

In una parola il caos nel quale l’unica vera perdente è l’autentica ARTE TRIBALE ed a guadagnarci sono soltanto gli stolti, gli ignoranti e gli imbroglioni.

E pertanto giova riaffermarlo, l’arte tribale, e tanto più quella africana, non è mai casuale, non sgorga dall’istinto pulsionale dell’artista e non parla soltanto a sentimenti inconsci del fruitore occidentale.

Inoltre non è mai anonima, anche se sconosciuti sono a noi  gli artisti che l’hanno creata; e non risponde soltanto a rigidi criteri del canone espressivo previsto dall’etnia di appartenenza, ma evidenzia una sottile e duratura evoluzione, in relazione alla personalità di ciascun artista.

 

Ibiboi oron 1946Hermann Braunholtz

 Oron, Nigeria,  1946, photo Hermann Braunholtz

 

Il mio impegno è questo: ridare, per quel che posso, la dignità artistica alle opere tribali e la considerazione di opere d’arte, tal quali le opere d’arte della cultura occidentale, attraverso la definizione e la costruzione di un’approfondita analisi estetica, antropologica e simbolica.

Soltanto riconoscendo pienamente la diversità culturale, la vitalità intellettuale e l’integrità estetica dei suoi creatori ( S.Price, 1989) è possibile un approccio creativo e dinamico alle arti tribali, alla loro conoscenza, interpretazione e comprensione.

Allora, davvero,  si  potrà restituire se non un nome, almeno un doveroso tributo, a quell’uomo che fu dimenticato, prima di essere ricordato!

Elio Revera

 

Hommage à Jean Grémillon, DAÏNAH LA METISSE (1932)

Hommage à Jean Grémillon, DAÏNAH LA METISSE (1932)

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