Arte e mito

Da oltre cento anni, fuori da cattedrali e chiese, una scultura circola nel mondo.
E’ una modesta scultura di legno, ma la più celebre, la più conosciuta, forse la più amata.
L’ha costruita un artigiano senza pretese, alla buona, utilizzando quel poco che aveva a disposizione.
Da allora però, questa scultura non smette di affascinarci e porci interrogativi.
Di quale scultura parlo…ma di Pinocchio, ovviamente!!

Ernrico Mazzanti, Prima ed. Pinocchio

Pinocchio nell’illustrazione di Enrico Mazzanti. Prima Edizione, Firenze, 1883.

L’intero universo subisce la malia di Pinocchio, a detta dell’Unesco alla fine degli anni 90 il testo di Collodi era stato tradotto in ben 240 lingue.

Questo mirabile burattino di legno è stato capace di insediarsi nell’immaginario di miliardi di individui, rappresentare i loro sogni, fantasie, suggestioni e struggimento… insomma, incarnare una figura mitica, indissolubile nel tempo e nello spazio.

E questa scultura manco esiste, non ha bisogno di esserci per esistere, non necessità affatto di presenza perché è il suo mito che la sostituisce nel cuore e nella mente di ognuno di noi.

Sono giunto a queste innocue considerazioni riflettendo su quello che ebbe a chiedersi Ludwig Wittgenstein quando si interrogava su quel che rimane oltre il linguaggio, la stessa domanda formulata sia pure in diversa maniera da Theodor Adorno quando si chiede su cosa permane ad di là del concetto.

Ma quando linguaggio e concetto non ci appartengono? Quando è arduo riconoscersi in essi? Forse che allora non hanno dignità in sé? La loro dignità consiste soltanto nel nostro rispecchiamento?

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Pende people, Congo

Qualcuno di ben illustre nel panorama del pensiero occidentale ha definito fuori dalla civiltà le popolazioni tribali, i “negri” in special modo: lo ha scritto Martin Heidegger ed in maniera simile prima di lui, Friedrich Nietzsche.

Per Heidegger, infatti, non è possibile considerare queste popolazioni appartenenti alla civiltà in quanto incapaci di un’autonoma storiografia che legittimi l’appartenenza di esse al novero del mondo civilizzato: per questo pensatore di stampo antisemita, la cui spontanea ed esultante adesione al nazionalsocialismo è nota e riconosciuta ben prima della recente pubblicazione dei suoi Quaderni Neri, la filosofia non ha affatto il compito di coniugare teoria ed etica e di conseguenza le cose del mondo possono ben essere lontane dalle riflessioni teoretiche.
Un bell’esempio di nichilismo in nuce  che Hitler ed il colonialismo occidentale han saputo esaltare in tutte le varianti, catastrofi e conseguenze, purtroppo!

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Ma la storiografia, cioè la capacità e possibilità di riflettere sulla propria storia e cultura, possono davvero esprimersi soltanto con la scrittura? Ovvero, l’assenza di un codice scritto, determina sempre l’assenza di un’autonoma storiografia?

Io credo proprio di no, io penso che le modalità di espressione di un’autonoma storiografia possano consistere in difformi modalità di espressione e che un pensiero compiuto non necessiti affatto di una scrittura compiuta.

E su questo cammino, tra gli altri mi sovviene in aiuto Paul Ricœur quando distingue tra i segni e i simboli linguistici: i primi, infatti, hanno funzione solo nel linguaggio comunicativo, mentre i simboli permettono di esplorare il significato profondo dell’esperienza umana. Per non dire di C.G. Jung che ha fatto dei simboli il centro della sua riflessione psicologica del profondo.

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Da tempo, peraltro, una sistematica riflessione sul “mondo dei primitivi” ha relegato in soffitta un’attenzione alquanto frettolosa da parte del pensiero occidentale sul tema; i lavori di S.Price,  C.Geertz,  J.Clifford,  M.Augé, tralasciando i padri fondatori dell’antropologia e dell’etnologia, hanno corroborato interpretazioni destinate a sfatare il semplificazionismo riduttivo di un certo pensiero occidentale di matrice prettamente post-idealistica.

Il mio contributo, qui, vuole essere un altro: concentrare la riflessione sul significato ermeneutico delle creazioni mistico/religiose della cultura tribale.

In altre parole, come il nostro Pinocchio travalica con la sua mitografia la mera vicenda del “burattino che si fa uomo”, così le maschere e le sculture nere, vale a dire gli oggetti simbolo della mitografia primitiva, travalicano il loro apparente valore rappresentativo e si fanno simboli di quella narrazione che Ricœur ha magistralmente illustrato.

Certamente un’interpretazione simbolica priva dell’ancora di un linguaggio scritto a corredo del simbolo è ardua per definizione. Per questo fondato e vincolante motivo, io penso, che sia indispensabile all’approfondimento ermeneutico, l’apporto critico dell’esegesi artistica degli oggetti di culto.

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Bena -Luluwa sculptures, Congo

In altre parole, il linguaggio scritto, in questa mia visione, è sostituito dall’immagine dell’oggetto di culto la cui profondità e valenza simboliche sono il risultato dell’esito artistico dell’oggetto medesimo.
Di conseguenza, la qualità intrinseca di un manufatto e per l’idea di qualità rimando ad altre mie riflessioni (https://artidellemaninere.com/2014/11/08/la-qualite-cet-obscur-objet-de-desir-a-la-recherche-de-la-qualite/), è a mio giudizio, la chiave interpretativa del valore e del senso della tradizione ieratico/simbolica che quel pezzo intende rappresentare.

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Yaka mask, Congo

Sul piano storico a legittimare questa mia affermazione è una constatazione pratica: più ci si allontana nel tempo e nello spazio dall’originaria tradizione simbolica che l’oggetto intende testimoniare e maggiormente il suo decadimento dal punto di vista qualitativo è visibile e palpabile.

Un esempio su tutti. E’ sufficiente confrontare alcune miserabili sculture in pietra realizzate dagli attuali Kissi della Sierra Leone per capire quanto queste produzioni siano lontane dagli originari nomoli del regno dei Sapi che diedero origine alla tradizione. Questo perché l’artigiano moderno non sa nulla della mitologia Sapi ed è lontano anni luce dalla sensibilità e dalla capacità necessarie a raffigurarla.

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A sx, opera del XIV-XV sec. del Regno dei Sapi (Courtesy  Sotheby’s)

Certo si può obiettare che non è sufficiente un bravo artista, un oggetto ben realizzato, per giustificare la loro certa interpretazione del pensiero simbolico che l’oggetto sottointende: un manufatto di qualità, in altre parole, non è di per sé certezza del valore simbolico!

Ciò è vero per quanto attiene all’artista occidentale guidato in grandissima parte dal suo personale estro creativo e secondariamente o per nulla dal valore della tradizione.

Ma per l’artista tribale il rigorosissimo rispetto della tradizione della cultura a cui appartiene è essenziale, pena il misconoscimento della sua produzione.
Compito dell’artista è infatti quello di dispiegare al meglio nelle sue opere il canone artistico della tradizione etnica di appartenenza, naturalmente apportando il segno del suo genio e delle sua capacità manuali, mai destinati però, a trasgredire o stravolgere i dettami del canone riconosciuto.

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Per questo motivo, al miglior livello artistico, a mio parere, corrisponde il più alto grado di rappresentazione simbolica del mito.

Ma sul rapporto qualità artistica ed ermeneutica simbolica non siamo che agli inizi!

 

Elio Revera

 

Betty Page

Omaggio a Magritte. “Ceci n’est pas l’Afrique”

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