Articolo pubblicato in : ARCHEOLOGIA AFRICANA – Saggi occasionali 2012-2013 n° 18-19
Résumé – L’article compare la signification psychologique et symbolique du regard dans la culture occidentale et tribale. Un regard intériorisé avant que artistique. L’art africain en particulier, à travers le regard et les yeux de trois sculptures représentant la “maternité”, une du Congo (Yombe), une de la Côte-d’Ivoire (Sénoufo) et une Nigériane (Igbo), souligne la signification symbolique d’une seule appartenance et un même destin humain.
Abstract – The Western eye and the Tribal eye. Three African sculptures resenting the “maternity”, from Congo (Yombe), from Ivory Coast (Senufo) and from Nigeria (Igbo), with their special looking at the world, are telling us about a shared symbolic meaning and a shared symbolic doom. A philosophical and psychological encounter, before of an aesthetic challenge.
Lo sguardo è lo specchio dell’anima… Chi l’ha detto?… Vale per tutti?… In ogni luogo e tempo?…
Ovvero esiste una specificità nelle Arti Africane? E qual è, se mai ci fosse?
Già Hegel aveva sottolineato come nel ritratto la pittura raggiunga il suo culmine, dal momento che il soggetto rappresentato risulta l’oggetto sommo e più spirituale; non si tratta più di paesaggi o nature, più o meno morte, bensì dell’individuo nella sua essenzialità autenticamente umana e non soltanto come tipo fisiognomico.
Il tema dello sguardo, nel suo presentare alla superficie l’interiorità e l’essenza, il carattere e lo spirito, costituisce il vero centro argomentativo; nello sguardo si concentra l’enigma dell’essenza presente (del soggetto), e della presenza assente (del senso), come giustamente ha sottolineato Jean-Luc Nancy.
Lo sguardo nell’arte africana si riassume sostanzialmente in due “oggetti”: maschere e sculture.
Qui nasce una prima questione: lo sguardo della maschera non è lo sguardo di chi la indossa, bensì lo sguardo che sta al posto di colui che la indossa! E questo non è pro¬priamente la stessa cosa.
Persona etimologicamente è legata a maschera, come nell’antico teatro greco dove una maschera era utilizzata per “im-personare” figure e psicologie.
La maschera può anche sostituire, celare, nascondere, interpretare, rappresentare la persona. Ed allora quello sguardo è uno sguardo per così dire simbolico, cioè sta al posto di, lo rappresenta e lo trasfigura, da sguardo individuale a sguardo immaginifico.
Gli sguardi delle maschere e delle sculture pertanto assurgono a caratteristica di eternità simbolica in cui le valenze individuali terrigne sono sublimate in valenze trasfiguranti e potenzialmente folli.
Folli perché configurano identità immaginifiche ed iperuraniche, laddove si incontrano gli dei, benigni o maligni, da onorare o da imbonire perché sovra dirimenti le volontà e le capacità umane.
Uno sguardo, quello delle maschere, che non vuole celare, ma incontrare quelle divinità terribilmente immature, fragili ed allo stesso tempo immensamente potenti, il cui sguardo (questo si davvero incenerente) mai essere umano potrebbe affrontare e sopportare soltanto con i pro¬pri nudi occhi.
Ecco allora una prima specificità: lo sguardo nell’arte africana cela per sopportare ed incontrare, sia occhi spalancanti o sbirciati, in tralice o diretti, palesi o camuffati.
Scomparivo da bambino nell’ampio mantello di mio nonno e qualcuno provvedeva a camuffarmi con una maschera da “vecchio”…ecco ero pronto per il carnevale!
La maschera per scomparire e la maschera per esserci, un’altra specificità dello “sguardo nero”.
Nella dimensione storico/antropologica tribale, nulla è più vero della maschera/scultura per esserci, rappresentare un evento, circoscrivere un fenomeno, esorcizzare una paura. Soltanto attraverso di esse e di conseguenza attraverso i loro sguardi, l’individuo non scompare, bensì acquisisce quell’identità che conta, quella che rappresenta non lui, ma l’intera comunità di cui lui ora si è fatto testimone ed interprete delle necessità collettive, dei segreti inconfessati ed inconfessabili, dei riti più eterodossi per qualsivoglia altro essere umano non appartenente a quella specifica assemblea umana.
Lo sguardo della maschera è allora il veicolo che alla velocità della luce, attraversa la coscienza etnica e raggiunge la sommità del mistero, delle potenze oscure della natura e con quello sguardo chiede, prega, implora o interpreta quell’energia tellurica o celeste che tutto presiede.
Alcuni hanno parlato dello “sguardo dell’invisibile”, dell’ignoto, dell’inconoscibile.
Uno sguardo che celebra l’assenza e contempla il vivente quale mero strumento e destino di potenze altere e mutevoli, sfiorabili soltanto da dietro le fessure della maschera, pena l’esserne annientati.
Soltanto dietro la maschera l’individuo osa avvicinare il suo destino ed interpellare oscure deità. Perché ciò che veramente è necessario non è la salvezza individuale, bensì quella del clan, del villaggio, della collettività: una salvezza necessaria, ma non garantita perché mai come in quel caso è dio che tira i dadi, e non c’è modo di barare a quel tavolo!
Di quale forza si nutre l’Ikenga guerriero o re che sia? Ed il misterioso byeri? L’infingardo Songye, (infingardaggine dello sguardo, intendo), e la dolce Luba?
Osserviamo lo sguardo di tre sculture. Sono tre maternità, così le definirebbe qualsiasi storico dell’arte occidentale. La prima è una maternità congolese Yombe.
A quale sguardo ci riferiamo se nemmeno gli occhi sono stati scolpiti? E perché non sono stati scolpiti?
Non lo sapremo mai, ma nulla mi vieta, con i limiti sopra richiamati, di esprimere una mia interpretazione.
Quegli occhi non ci sono perché quella madre non ha bisogno di guardare; il suo sguardo è interiorizzato, profondo, rivolto non al mondo, ma al suo ruolo di donna che accudisce la vita e la perpetua. Non ha bisogno di guardare perché lei già vede quel che è necessario vedere e quel che è necessario vedere non è fuori, ma dentro, nel suo significato ancestrale di nutrice.
Il silenzio che promana da quegli occhi-non occhi è la rappresentazione di un’identità collettiva, di un ruolo attri¬buito che prescinde da quello individuale perché, a differenza di una madre occidentale che ha nome e cognome, quella figura Yombe non è una madre, bensì “la madre”, vale a dire la rappresentazione impersonale della continuità dell’esistenza.
Come ella non ha nome, così non ha nome chi l’ha realizzata ed è in questi frangenti che personalmente misuro tutta la fragilità epistemologica della cultura occidentale che con grande fatica accetta di fermarsi davanti all’ignoto e spesso ricorre a ridicole classificazioni del tipo “Maestro delle maternità cieche”! Cieco infatti, è chi guarda ma non sa vedere!
Ma a chi è rivolto lo sguardo di questa madre Senufo?
Qui gli occhi ci sono, e sono pure grandi, ben spalancati, ma dove guardano? Con chi stanno parlando, in silenzio?
La madre Yombe, priva di occhi, intesseva un mutuo e profondo dialogo con sé medesima ed esprimeva l’idea universale della maternità. Ma la Senufo?
Forse ci può aiutare l’osservazione dell’intera scultura e la postura dei tre soggetti rappresentati.
Fiera e solenne, questa madre non fa trasparire alcuna emozione, nessun sentimento di complicità affettiva verso i piccoli che allatta, nessuna empatia di affettuosa partecipazione al gesto.
Una donna che esibisce i due pargoletti, non a caso maschio e femmina, e li nutre, impassibile ed altera, come stesse eseguendo un atto dovuto. Il suo sguardo infatti è altrove, non certo verso i piccoli, che trattiene piuttosto che accogliere al seno. Ma perché?
E se quella figura non fosse una madre terrena?
E se i due poppanti non fossero due piccoli affamati?
In questo caso la fiera madre non sarebbe altro che la Terra Senufo e i due bambini i simboli delle nuove generazioni che la grande Madre Terra nutre simbolicamente perpetuandone l’esistenza.
Ed allora, se una superficiale lettura deponeva per la rappresentazione impersonale di un’anaffettiva madre, vista più da vicino quella figura assurge a figura simbolica, nobile e ieratica, che incarna la sapienza della sua tradizione e la trasmette alle due figure maschile e femminile, a loro volta, simboli del divenire e perpetuarsi dell’etnia.
Quello sguardo fiero ed aperto pertanto guarda ad un futuro di là da venire e si incarna nel più tenero gesto umanamente immaginabile, trasfigurandolo e rendendolo eterno.
Questa scultura è quindi una natività, una natività Senufo ed altresì un degno archetipo dell’intera umanità e del suo istinto di conservazione e perpetuazione.
Questa figura in terracotta è la rappresentazione di una maternità Igbo, denominata altresì N’tepke.
Destinata quale ornamento dell’altare famigliare, la postura di questa figura è legata con ogni probabilità ai riti simbolici afferenti l’offerta.
La materia con cui è realizzata garantisce una stupefacente, plastica espressività. Pare di notare una spensieratezza allegra, l’espressione è priva di ogni preoccupazione, lo sguardo ottenuto attraverso fori praticati nella materia molle è diretto e senza infingimenti, come quello sul volto di una persona serena. Priva di ogni drammaticità, questa madre si offre per ciò che è, cioè una donna semplice e complice nello stesso tempo, con il suo piccolo che pare dormire sulle sue ginocchia.
Osservati più da vicino però, lo sguardo e la postura di questa N’tepke, sottendono un’altra caratteristica: la nobile fierezza.
Su quel volto leggermente inclinato all’indietro, l’espressione che compare è quella di una madre perfettamente consapevole del suo ruolo, che esibisce con fierezza il suo pargolo ed insieme il suo status. Ne sono testimonianza l’acconciatura complessa, le scarificazioni rituali che compaiono sulle guance, i monili, le collane e i voluminosi bracciali che sono posti anche sul bambino; tutto sta ad indicare che non è lì per caso, bensì sta offrendo allo sguardo di chi la vede il suo sguardo di madre consapevole ed orgogliosa.
Questo tratto di tanta trasparenza emozionale non è affatto comune nella plastica Africana, così aliena a volte, impenetrabile ed enigmatica. Dunque, un merito a questa terracotta ed al suo sguardo che restituiscono fiduciosa allegria in un mondo tribale tanto difficile ed ostico.
Tre figure, quelle precedenti, che incarnano un mondo tribale, tanto alieno dalla nostra cultura e dalla nostra civiltà, non fino al punto però, di negare la va¬lenza simbolica di una comune origine e di un condiviso destino.
Bibliografia
HEGEL G.W.F.
1976 – Estetica, ed. italiana a cura di N. Merker, Einaudi, (NUE, nuova serie, 16), vol. II: 965-969, 990, Torino.
KAMER H.
1974 – De l’autenticité des sculptures africaines, Arts d’Afrique Noire, n. 12: 17-41.
PANOFSKI E.
1995 – La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Feltrinelli, Milano.
NANCYJ.L.
2000 – Le regard du portrait, Galilée, Paris