Est-ce que l’art africain existe?

 Ma nella cultura primordiale dell’Africa il concetto di bello, di bellezza era conosciuto?

 E di conseguenza quello di Arte che posto occupava in quelle culture?

Certamente tale nozione, nell’accezione occidentale, era sconosciuta, ma se per arte intendiamo ” il metodo e l’insieme delle regole per ben fare qualsiasi cosa( Larousse encyclopédique), allora, senza tema di smentita, tale concetto era ben presente.

Ma guardiamo la cosa più da vicino.

 L’immanenza del bello, declinato diversamente in ogni cultura ed in ogni epoca,  non mi pare è affatto una peculiarità di culture più o meno evolute secondo i canoni interpretativi occidentali, ma riguarda l’intera storia dell’umanità.

 Come immaginare che tra la popolazione dei cacciatori/raccoglitori di Altamira, in Spagna, quindicimila anni fa, improvvisamente si optò per decorare con delle magnifiche pitture rupestri la celeberrima grotta? E che tale azione sia stata realizzata da uomini qualsiasi, così, per trascorrere il tempo?

 

Altamira

 

In realtà quella magnificenza fu opera di individui istintivamente attratti dal bello e dotati delle abilità necessarie a tradurre in pittura l’opera del loro ingegno creativo.

 

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E la stessa cosa può dirsi per le rocce istoriate che testimoniano la vita degli antichi Camuni che abitarono nel paleolitico la Valle Camonica, in Italia, fin da 8000 anni prima di Cristo, caratterizzate da figure di animali, in particolare  cervi, incise in maniera molto semplice con strumenti rudimentali di roccia silicea.

 

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 Rocce rupestri di Cividate Camuno, (Brescia)

 

 Se per quegli antichi popoli non disponiamo che delle loro testimonianze artistiche, per i popoli d’Africa, al contrario, la tradizione orale è disponibile e costituisce un fattore decisivo nel confermare la presenza dell’idea di bello e di arte.

 Scrive Raoul Lehuard: “Pour la région qui nous concerne le plus directement, le Bas-Zaïre, les populations Bakongo possèdent un mot qui désigne à la fois celui qui crée avec telent, ingéniosité et dextérité; celui qui exerce son métier  avec génie. Il s’agit de Mbangu, et ses dérivés Ambangu, Umbangu. Ce vocable désigne également la rectitude d’une chose qui ne serai rien sans cette rectitude: une poutre faîtière, par exemple, un alignement, l’assise d’un bâtiment, la tradition”. (AAN, n.74, 1990).

 

Bameleke costumed ritual dancers, Cameroon, circa 1930's. Photographer unknown.

Bameleke costumed ritual dancers, Cameroon, circa 1930’s. Photographer unknown.

 

Lo stesso Albert Maesen a sua volta scrive “ Dans certains dialectes Kongo, le mot Umbangu désigne à la fois le génie créateur et le fait de s’insérer dans une ligne tracée qui n’est autre que la tradition ancestrale” (Umbangu, Bruxelles, 1960).

 E per parte sua, Marie-Louise Bastin, in riferimento al popolo Chokwe d’Angola ci informa che il termine Utotombo designa un oggetto ben fatto e funzionale, realizzato con grande abilità ed amore (L’Art d’Afrique Noire dans les collections privées belges, Bruxelles 1988).

 Sono sufficienti queste tre testimonianze per far piazza pulita di infiniti stereotipi inerenti l’arte classica africana, come quelli che si riferiscono alla casualità del bello, alla spontaneità senza riflessione, alla produzione di manufatti in assenza di progetto e finalità ed altre similari amenità.

 

Igbo 'Agbogho Mmuo' (maiden spirit) ritual, Nigeria, early 1900s. Photo by Northcote Thomas.

Igbo ‘Agbogho Mmuo’ (maiden spirit) ritual, Nigeria, early 1900s. Photo by Northcote Thomas.

 

 Quanto sopra, però, non comporta il fatto che in occidente resti attuale la mistificazione dell’arte africana, come suggerisce Peter Mark in un eloquente articolo, Est-ce que l’art africain existe? ( Revue française d’histoire d’outre mer, tome 85, n.318, 1998).

 Scrive Mark, “Il ne s’agit pas moins que de recréer la discipline de l’histoire de l’art africain. Il faudrait d’abord éviter la mystification du sujet. Et il faudrait situer les objets étudiés dans leur contexte historique. Comme l’a écrit l’historien Mamadou Dawara, “abandonner le primat de l’esthétique et travailler plus sur des aspects historiques et anthropologisques s’impose”.

 Se condivisibile è l’appello all’approccio storico delle arti africane, in gran parte superata, mi pare, l’affermazione che riconduce queste arti nel recinto antropologico che privilegia l’aspetto storico/etnografico su quello artistico.

 

 

Also from the collection is the following photograph by Ulli Beier, from his Yoruba Children series.

Also from the collection is the following photograph by Ulli Beier, from his Yoruba Children series

 

 La contrapposizione tra arte ed etnografia, infatti, riferita ai manufatti primordiali, è stata alla base di conflitti tra intere generazioni di studiosi e soltanto alla fine del secolo scorso si è assistito ad un sostanziale riavvicinamento delle due posizioni, grazie in particolare all’opera di Sally Price che a mio parere è da considerarsi un punto di svolta in questa materia.

 Grazie a lei, infatti, lo smascheramento della contrapposizione tra oggetto etnografico ed opera d’arte, tra primitivi ed  artisti occidentali, è  finalmente compiuto.

 L’arte dei “selvaggi” riceve il giusto riconoscimento attraverso lo studio e la valorizzazione dell’ambiente culturale che l’ha generata; non si parla più di un’arte anonima, quanto di artisti sconosciuti proprio in assenza dell’approfondimento storico/culturale della cultura originaria.

 

 

Alberto Giacometti accanto a un reliquiario Kota del Gabon, 1927.

 Alberto Giacometti nel suo studio con il reliquiario Kota.

 

 

Federico Zeri, il grande storico e critico dell’Arte occidentale riferendosi all’opera della Price, Primitive Art in Civilized Places, (1989), scrive infatti nella prefazione della prima edizione francese, “…Les faux critères d’atemporalité et d’anonymat, appliqués généralement aux primitifs, sont ceux-là même qui dénaturent les æuvres de nos siècles obscurs…”

   A mio parere, possiamo quindi rispondere alla domanda iniziale, affermando che il concetto di arte sia stato parte integrante della cultura primordiale africana, sebbene denominato e coniugato in maniera difforme rispetto all’occidente.

 

 

Collage by Hanna Hoch (“The Flirt,” 1926)

Collage by Hanna Hoch (“The Flirt,” 1926)

 

 La prevalenza del significato ieratico nelle opere africane, infatti,  non incide affatto sulla qualità artistica dei loro manufatti, come non incide parimenti per la cultura europea, il fatto che grandissima parte delle opere d’arte fossero di ispirazione e destinazione religiosa.

 Soltanto il pregiudizio e la supponenza occidentale hanno relegato l’arte primordiale a puro oggetto esotico, degno casomai di una  Wunderkammer non certo di un museo, spogliandolo di tutta la cultura che l’ha generato, rendendolo anonimo, disprezzandolo nel suo significato simbolico…in una parola, attuando su di esso la medesima politica colonialista adottata con le popolazioni soggiogate.

 E del resto…era mai possibile indagare, studiare ed apprezzare l’opera di “primitivi selvaggi” destinati in gran parte alle necessità dei bianchi civilizzatori?

 

 

Hommage à Jean Grémillon, DAÏNAH LA METISSE (1932)

Hommage à Jean Grémillon, DAÏNAH LA METISSE (1932)

 

 Qui infatti è la radice della questione a parer mio: ridotta a puro feticcetto esotico, a mero oggetto d’ornamento, a curiosità d’oltremare, la grande Arte primordiale del continente africano ha subito niente di meno di quello che han subito per secoli i popoli che di quelle arti erano i facitori: la riduzione a meri strumenti di un colonialismo avido e bieco  perpretato dalle civilissime nazioni europee ed americane.

 Ma come qualcuno ha saggiamente scritto, l’arte cura le ferite che crea, ed infatti la scoperta della valenza estetica delle arti primordiali africane fu opera, in gran grande sostanza, di artisti squattrinati, ma ricchi di sensibilità e gusto.

 Le avanguardie artistiche del primo novecento, sia pure in maniera istintiva, seppero leggere in quei manufatti il disegno di una nuova estetica destinata a rivoluzionare l’arte dell’intero secolo.

In qualche modo l’arte occidentale rese giustizia a quella primordiale ed in parte seppe sanare, almeno sul piano culturale, le ferite e le ingiustizie che interi popoli ebbero a subire.

 

 

Black & White (Kiki) 03 - Man Ray,1926

Black & White (Kiki) 03 – Man Ray, 1926

 

Ecco, mi piace pensarla così: l’arte occidentale ha compensato in parte il debito con quella primordiale dei lontani continenti, l’ha riconosciuta nel suo profondo significato storico e l’ha ricondotta nell’alveo culturale ed estetico dell’intera umanità.

 In barba ai tanti delle retroguardie del XXI secolo, nostalgici di una superiorità perduta e, soprattutto, dei privilegi che essa garantiva!

 

Elio Revera

 

 

Fang Ngil Mask, Gabon, date and photographer unknown

Fang Ngil Mask, Gabon, date and photographer unknown

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