Ci sono opere della cultura primordiale dell’Africa, siano esse semplici oggetti d’uso quotidiano, maschere o sculture, che si impongono immediatamente per la loro innegabile bellezza, armonia compositiva, purezza dei tagli; altre, certamente meno seducenti alla visione, costituiscono però la testimonianza di una particolare cultura antropologica, una traccia significativa che documenta quella peculiare storia e la vita in quell’ambito geografico.
Poi ce ne sono altre, molto più rare, che sintetizzano nella loro essenza, una straordinaria qualità artistica coniugata con i più profondi significati simbolici di quella cultura e di quello specifico popolo.
Sono opere queste, che sovente, stante la loro arcaicità, sono di difficile lettura ed attribuzione, dal momento che costituiscono l’archetipo, il modello originario per così dire, di tanti similari oggetti creati nelle successive epoche.
Di queste opere possiamo ben condividere l’attribuzione di “capolavoro” nell’accezione dell’originario significato lessicale di opera che, stante le sua intrinseca qualità, sta a capo delle altre.
Ho utilizzato il termine “cultura primordiale” in sostituzione di parole abusate quali “arte tribale, arte primitiva, etnia…” per rimarcare una distanza semantica e storica da un’impostazione stereotipata di marca post-colonialista che ancora permane in tanti abiti della nostra cultura, in relazione alle manifestazione artistiche non occidentali.
Western Sudan e Burkina Faso (ex Alto Volta) con la localizzazione dei principali popoli.
Una di queste opere che ho definito capolavoro o archetipo originario è certamente, la maschera Nwantantay del popolo Bwa del Burkina Faso, conservata nel Musée d’Arts Africains, Océaniens, Améridiens di Marsiglia.
Questa maschera, di grande eleganza formale e di notevole qualità artistica, misura 123 cm.
Le altre della medesima tipologia si presentano sotto forma di pannello, con alla base un viso piatto, rotondo od ovale, ornato, nella parte superiore, da motivi geometrici, tra i quali ricorrono sovente scacchiere dipinte in bianco e nero. La maschera lignea è completata da un complicato corredo di fibre vegetali che vengono intrecciate nella boscaglia, all’alba del giorno del rito. I danzatori guardano attraverso l’apertura della bocca; gli occhi sono dei grandi cerchi geometrici…Il danzatore, abbigliato come incarnazione di Do (culto principale tra i Bwa), non può parlare poiché la parola appartiene agli uomini “la comunità umana viene nuovamente introdotta nel ciclo della natura e in virtù di questo essa rinnova le sue forze come la vegetazione che rinasce ogni anno” (J. Capron, 1957, C. Roy, 1987). Anche secondo William Fagg queste maschere sono utilizzate per celebrare le stagioni agricole nell’ambito della società Do. (1980)
Il confronto con alcuni esemplari più recenti evidenzia senza particolari spiegazioni la distanza qualitativa tra la maschera di Marsiglia e tutte le altre.
Rimanendo in Burkina Faso, dove anche le abitazioni sono talvolta piccoli capolavori di creatività ed eleganza, un altro popolo che confina ad ovest con i Bwa ed a sud con il Ghana, vale a dire i Nuna, fornisce un ulteriore esempio di quanto appena descritto.
Resto in Burkina Faso, ma ciò è del tutto casuale, dal momento che il medesimo ragionamento è replicabile per ogni produzione artistica del continente.
I Nuna appartengono al grande popolo dei Gurunsi o Gourounsi che costituisce all’incirca il 6% dell’intera popolazone del Burkina, dove i Mossi sono ben più numerosi con oltre il 50%.
I Gurunsi credono in un essere supremo Yi, che si è sottratto al mondo dopo averlo creato ed il suo altare, infatti, occupa il centro dei villaggi.
Yi ha inviato in sua rappresentanza lo spirito Su che, a detta dei Gurunsi, si incarna in tutte le maschere. Una volta rispettate le regole propiziatorie, Su proteggerà la famiglia ed il villaggio apportando salute, fertilità e prosperità.
Le maschere in cui si incarna lo spirito Su, secondo i Nuna, raffigurano vari animali, quali il serpente, il coccodrillo, il bufalo, l’ antilope, la scimmia ed altri ancora.
Più che l’aspetto concreto della maschera, quello che la identifica è la danza e come ha scritto J.B. Kiethega , “ à tous ces masques est attaché un corpus des mythes anciens ed modernes “. (1992)
Una di queste maschere è quella della scimmia (singe).
“Dans la plus part des spectacles…un ou deux masques singes sont chargés de contrôler la foule. Portés par des jeunes gens renommés pour leurs talents d’acteurs, ils miment souvent les actions des hommes par des paillardes qui arrachent aux spectateurs des tonnerres de rires et d’applaudissements.” ( C. Roy, 1987)
Senza alcuna pretesa di rappresentare l’intero corpus di questa tipologia di maschere, ringraziando in particolare l’archivio AHDRC di Titus e Guy van Rijn, sono qui di seguito riprodotte quelle che ho rintracciato.
Queste maschere singes dei Nuna/Nunuma hanno una misura compresa tra i 25 ed i 40 cm. circa di grandezza.
Come si può vedere, a parte la comune impostazione costruttiva, qualità, anzianità ed espressività sono alquanto difformi.
Ma non è tra queste, a parer mio, che si trova quella che ho definito l’archetipo originario.
Secondo la mia valutazione, è questa successiva maschera rinvenuta in una collezione privata francese, l’esemplare sommo delle maschere antropo/zoomorfe dei Nuna/Nunuma.
Questa maschera è stata raccolta in situ nell’area di Tchériba, dell’omonimo dipartimento della provincia di Mouhoun, dove ancora oggi persite la presenza dei culti che utilizzano le maschere come ben evidenzia il filmato. https://www.youtube.com/watch?v=QMQ7rJfd9ME
Caratteristiche della maschera: legno eroso con patina di grande anzianità e di lungo utilizzo, riparazione idigena, pigmenti colore e corda, h. 30 cm.
La potenza espressiva di questa arcaica maschera è devastante. Davvero si rintraccia in essa, ed in altre opere of course!, la spiegazione del perché tanti artisti delle Avanguardie del primo ‘900 furono turbati al punto da generare una nuova espressività, tale è infatti la sintesi di rigore, potenza e bellezza in questo mirabile oggetto.
La dolente fierezza dello sguardo (umano), quel grido silente, l’armonia compositiva, la spontaneità dell’esecuzione, insieme alla percepibile anzianità ed alla patina che il tempo ha depositato, fanno di questo oggetto un autentico capolavoro dell’arte primordiale dell’Africa nera.
L’antica riparazione visibile al retro, poi, eseguita nell’intento di preservala, impreziosisce il contesto originario e ci rimanda un’idea di cura ed affetuosa attenzione.
Ma non intendo dilungarmi oltre ed affido alla visione attenta del lettore il confronto con le maschere pubblicate.
La mia conclusione, dopo quanto scritto si indirizza, però, in una direzione diversa che prescinde dalle maschere del Burkina Faso prese in esame.
Quanto ho illustrato pone una questione strutturale: è maggiormente proficuo indirizzare la ricerca storica nella definizione dei nominativi di antichi fabbri, con la conseguente attribuzione a maestri e scuole più o meno plausibili, ovvero, al di là dei nomi, è più decisivo individuare gli originari archetipi generatori delle variegate produzioni artistiche dell’Africa nera?
Elio Revera