Ho delineato nel precedente lavoro preliminare a codesto i limiti e gli intendimenti della mia ricerca: delineare le caratteristiche dello statuto autonomo dell’atto iconico tribale. (https://artidellemaninere.com/2017/05/02/visions-make-beauty-limmagine/)
Quali sono allora, nello specifico, gli elementi di quell’atto che consentono all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza all’efficacia esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero e del comportamento? (H. Bredekamp)
In una parola, quali sono le caratteristiche, se mai esistono, imprescindibili e fondamentali, che connotano lo statuto autonomo dell’atto iconico tribale?
Igbo ‘Agbogho Mmuo’ (maiden spirit) ritual, Nigeria, early 1900s. Photo by Northcote Thomas.
A mio modo di pensare, le fondamenta di quest’atto sono essenzialmente tre: l’evento, la vitalità e la permanenza.
Al primo di questi elementi, l’evento, è rivolto questo lavoro.
L’iconografia dell’arte occidentale, che anticipa di secoli l’analisi critica verbale, data almeno due milioni di anni, tali appunto sono le prime rappresentazioni umanoidi di immagini grafiche e plastiche.
L’arte occidentale, nel corso dei secoli, non ha mai abbandonato il fondamentale criterio rappresentativo delle immagini, vale a dire il criterio della descrizione e della rappresentazione.
L’intera arte sacra e borghese infatti, fatte salve rare eccezioni, penso a H. Bosch, si sono attenute a tali modalità, almeno fino agli inizi del secolo scorso, quando, l’immagine è mutata in espressione aniconica astratta e concettuale.
La forza delle immagini, pertanto, è sempre stata la coincidenza con l’illustrazione del sacro e del profano, sia che l’immagine fosse di un crudo realismo o prodotta dalla fantasia visionaria dell’artista.
Chi non ricorda sacre rappresentazioni legate alla passione di Cristo, ovvero epiche ricostruzioni di battaglie, paesaggi, eventi mondani, intimità familiare, ritratti di prelati, nobili e borghesi, fino alla rappresentazione di momenti di gaudio, di lavoro, di tenerezza, ma anche di paura e terrore.
L’intera iconografia occidentale è colma di quadri, sculture, monete, illustrazioni grafiche, manufatti che ci parlano di questo.
L’immagine che ha accompagnato l’atto iconico dell’arte occidentale è essenzialmente un atto rappresentativo nel quale l’artista ha descritto o trasfigurato la realtà e la storia che gli erano date di conoscere.
Tutto ciò non è accaduto per l’atto iconico tribale.
Bameleke costumed ritual dancers, Cameroon, circa 1930’s. Photographer unknown
Nell’arte tribale l’immagine, costituita essenzialmente da manufatti plastici, è evento; vale a dire non è destinata a descrivere, bensì coincide con l’avvenimento, con quel che accade, e la prospettiva da diacronica si fa sincronica.
Non essendo descrizione, l’immagine rinuncia alla dimensione spazio-temporale e si fa evento, vale a dire è immanente a ciò che descrive.
Immagine e sacro coincidono nella mediazione con le forze dell’invisibile che regolano gli eventi quotidiani del mondo.
L’atto iconico tribale, pertanto, delinea uno statuto autonomo nel momento in cui rinuncia a descrivere ciò che non può essere descritto e crea immagini/evento indispensabili a coniugare il mondo visibile con le forze invisibili del sacro.
West African Shaman c. 1904, photo by Robert Hamill Nassau
Una sua fondamentale caratteristica è proprio questa: l’immagine, che sia maschera, statua o altro oggetto rituale, è tramite/evento del sacro, forza invisibile ed indescrivibile, ma potentemente regolatrice della vita individuale e soprattutto sociale dell’intera etnia di appartenenza.
Per questo tali immagini mediatrici del sacro sono riservate alla cura di pochi e destinate sovente agli occhi di iniziati: la loro forza trascende ogni possibile riparo e l’atto iconico insito in esse testimonia in modo immediato e diretto, la potenza dell’invisibile.
Ma se l’immagine/evento trova in sé una coincidenza, quali conseguenze comporta questo fatto nel disegno di definizione dello statuto autonomo dell’atto iconico tribale?
Source Niellé, ma vie au Niger, 1902
In primis, la peculiare attribuzione di atemporalità, vale a dire, per usare una classificazione occidentale dell’hic et nunc.
Questa categoria del qui ed ora va però declinata nella sua specificità di significato.
Atemporalità non significa affatto, in questo contesto, staticità, mancata evoluzione, assenza di dinamismo o altro di similare; in questo specifico ambito, il criterio dell’atemporalità, del qui ed ora, è da intendersi precipuamente come criterio di immanenza e di coincidenza.
L’immagine/evento è contestuale al suo manifestarsi, al suo agire, al suo produrre o meno gli effetti desiderati e non si dispiega in un arco temporale che costituisce, questo si, il modus operandi dell’immagine/descrizione.
Immanenti al loro manifestarsi, le immagini tribali svolgono in quell’istante il precipuo compito per cui sono nate e non hanno nessuna cura, né la minima pretesa di perpetuarsi nel tempo e nello spazio.
Questa è la valenza che ho attribuito al termine atemporalità e ben si comprende come tutto ciò costituisca una peculiarità e non un limite delle immagini/evento tribali.
Sono infatti del tutto infondate, alla luce di quanto sopra scritto, le teorie più o meno palesi che relegano l’arte tribale e di conseguenza le sue immagini, ad un destino di mancata evoluzione, di immobilismo creativo o, peggio, di reiterata pedissequa ripetizione.
Nulla di tutto questo: se l’arte autentica tribale e nello specifico quella africana, fonda il proprio statuto specificatamente sull’hic et nunc, pare evidente che la sua evoluzione iconografica non va cercata col parametro dello spazio/tempio, proprio dello statuto specifico dell’arte occidentale, bensì secondo categorie epistemologiche del tutto diverse che saranno tema di un successivo lavoro.
Ibibio, Nigeria, 1905
Pare superfluo sottolineare, a chiusura di queste digressioni, che l’immagine/evento è quella peculiare del suo contesto originario e la definizione dello statuto autonomo dell’atto iconico tribale si riferisce in modo specifico e totale alle opere create nel contesto e con gli strumenti originari, opere destinate all’originario rituale.
Ho ripetuto tre volte la parola “originario” non a caso: il mondo occidentale, infatti, del tutto avulso al contesto in cui sono nate quelle opere e naturalmente ignorandone le finalità, non ha potuto che considerare quegli oggetti alla stregua di semplici esotici oggetti, prima con curiosità mista a disgusto ed in seguito con maggiore attenzione e rispetto, soprattutto alla luce della valenza economica che certe opere hanno acquisito sul mercato internazionale.
Facendo questo però, l’intero statuto autonomo di tali opere è stato snaturato ovvero riassorbito più o meno deliberatamente in quello delle immagini/opere occidentali.
Con questo lavoro ed i successivi, è mia intenzione tentare di restituire a quelle opere tribali il loro autonomo statuto iconico, dal momento che, per quanto riguarda l’originalità, il fascino e la bellezza, un loro posto l’hanno già conquistato da decenni.
Elio Revera
Bamum dancers of the royal court. Foumban, Cameroon Circa 1930.