a cura di Giorgio Rusconi, grande amico appassionato e conoscitore delle Arti Africane. Grazie Giorgio.
Tuttavia, al cospetto della scultura africana,
va abbandonata la paura di essere profani…
ci si deve lasciare catturare dal suo fascino.
Bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla.
Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni,
consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi.
Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali.
Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere,
lasciarsi prendere dalla magia.
Jacques Kerchache

La pagina è dedicata all’arte tribale africana sub-sahariana, ovvero arte dell’Africa Nera. “Forma selvaggia” perché ho sempre limitatamente inteso il termine “selvaggio” nella sua accezione positiva, intrigante, stimolante, e nello specifico artistico non riferibile a “tribale” o “primitiva”, come purtroppo l’arte africana (e non sola) venne e viene tuttora definita dal suprematismo culturale euro-nordamericano. Quindi, per me, nulla di dequalificante o riduttivo, come potrebbe erroneamente far ritenere il titolo della pagina, tutt’altro.
Ne consegue “selvaggia” quale forma espressiva al di fuori delle regole e dei canoni culturali e stilistici classicisti, travalicante inconsciamente gli equilibri rappresentativi formali dominanti, matrice di una creatività artistica profondamente distintiva e peculiare, che nei primi anni del ‘900 influenzò concettualmente, talvolta modificandola strutturalmente, l’arte europea.
Nelle pagine interne, troverai raffigurate opere della mia piccola collezione, con foto e testi esplicativi d’ordine generale e analitico. Collezione costituita non solo da sculture definibili d’arte o d’epoca, ma anche da oggetti o sculture aventi mero interesse e valore etnoantropologico, così qualificabili in quanto essere stati realmente utilizzati come rituali oggetti di potere o oggetti di cultura materiale.
I manufatti sono elencati al termine della presente introduzione per indice suddiviso dalla cultura di provenienza e dalla denominazione originale (ove recuperata) dell’opera: scorrilo e ove ti intriga la cultura o ti attragga il nome, clicca e avrai accesso alla visione delle opere. In calce all’elenco potrai trovare, dettagliate per argomento, dissertazioni comparative tra culture aventi oggetto alcune tipologie delle opere in collezione che ritengo siano utile approfondimento.
Per alcune opere, sono riportati commenti, studi e contributi di Louis Perrois, Raoul Lehuard, Constantine Petridis, Gigi Pezzoli, Bernard De Grunne, Pierre Dartevelle, Helene Leloup, Suzanne Preston Blier, Ann de Pauw, Gabin Djimasse, Ihediwa Nkemjika Chimee, Marc Leo Felix, Annemieke Van Damme, Philippe Guimiot, Boureima Diamitani, Boris Kegel-Konietzko, Adrien Munyoka Mwana Cyalu, Marie Louise Bastin, Ohioma Pogoson, Arthur P.Bourgeois, Bruno Claessens, Alain de Monbrison, Alain Lecomte, David Serra, Helene Leloup, Beppe Berna, Adjos Togbé Gakpangan, P.Didier Claes, Olivier Larroque, Alain-Michel Boyer, Massimiliano Delpero, Marc Ghysels.
I testi autorevoli riprodotti dovrai considerarli, se profano del tema, una illustrazione parziale e interpretativa personale/temporale dell’arte succitata: parziale perché l’argomento è di ampia e molteplice analisi interdisciplinare, interpretativa personale/temporale perché quanto riportato è frutto di singole opinioni e convinzioni correlate alla datazione delle stesse. Ciò per rimarcare che diversa angolazione dottrinale, diversa lettura autoriale, diverso momento storico, possano avere conseguente diversa argomentazione.
Occorre comunque tenere presente l’estrema complessità, e talvolta impossibilità, del fruitore, anche esperto, di opere, estraneo alla cultura di produzione delle stesse, a definirle, valutarle, contestualizzarle nella loro interiore spiritualità, nella individuazione del rapporto tra significato e significante.
Nella pagina introduttiva, tra citazioni e scritti, sono riportate immagini d’epoca di maschere, feticci, statue.

Songye. Il re Kuba Kot aPe con feticci “mankisi” di comunità in Nsheng, 1911.

Fang. Reliquiari “byeri”, 1914.

Abiriba. Tamburo, 1930/1939.

Vili. Feticci “nkonde” e “n’kozzo” o “kozo”, 1902.

Ibibio. Altare “juju”, 1915.

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

Igbo. Maschera “mgbedika” o “agaba”, 1930/1939.

Yaka. Feticci “biteki”, 1906.

Igbo. Statua “ikenga”, 1930.

Songye. Feticci “kashashwiim”, “mweeny”, “mutwoon” e “tshikudi”, 1910.

Ikwerri. Maschera “abam”, 1930/1939.

Songye. Feticcio “Tombwe”, in Kabashilange, 1922.

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

Vili. Feticci “nkisi”, “nkobi e oggetti di potere, 1909.

Baga. Maschera “sa sira ren” e altra sconosciuta, 1947.
Un percorso iniziatico. Jacques Kerchache, 1998.
La passione per l’Africa mi ha spinto, senza che avessi predisposto in anticipo un piano sistematico, nel cuore del Gabon, mi ha condotto dal Congo alla Guinea equatoriale, dalla Costa d’Avorio alla Liberia, mi ha portato dal Burkina Faso al Mali, dall’Etiopia al Benin, dalla Nigeria al Camerun e dalla Tanzania allo Zaire. Da queste esperienze talvolta ardue, certamente fisiche, ma soprattutto intellettuali e spirituali, dalla mia partecipazione ad alcune cerimonie e a diverse manipolazioni di oggetti, dalla mia immersione temporanea, ma reale, nei culti vudu dell’ex costa degli Schiavi, non posso oggi esprimere che delle sensazioni, delle impressioni. Mi asterrò perciò, da qualsiasi affermazione.
Tuttavia, al cospetto della scultura africana, va abbandonata la paura di essere profani e ci si deve lasciare catturare dal suo fascino; bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla. Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni, consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi. Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali. Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere, lasciarsi prendere dalla magia.
Anche se non possiamo contemplare questa scultura che attraverso i suoi frammenti, questi sono ancora abbastanza significativi per esprimere un alfabeto di segni fondamentali, di matrici, al quale l’uomo moderno, nella sua necessaria ricerca di universalità, può e deve attingere. In questa fine del XX secolo, potrebbe essere pericoloso trascurare l’apporto delle “arti prime” e nel contempo ultime; sono questi gli antenati del futuro. Lo scopo delle arti africane non è di insegnarci una certa ideologia, ma di indurci a osservare in maniera diversa. Ci si deve guardare dal sottile razzismo che sostiene la necessità di essere africani per capire questa scultura, atteggiamento esotico non più accettabile.
(…)
Altra raccomandazione: l’arte africana non deve essere avvicinata attraverso la prospettiva delle date. In primo luogo, qualunque sia la cultura osservata, l’età di un’opera non è mai garanzia della sua qualità, le produzioni minori, rozze e povere abbondano qui come nelle culture greco-romana, egizia, asiatica, francese del XVIII o del XX secolo. In secondo luogo, vanno superate le analisi (etnomorfologiche, quantitative e matematiche) effettuate da numerosi ricercatori. Potreste concepire di misurare le sculture del Benin o di Picasso per determinarne l’originalità, l’emozione o la magia? E perché servirsi di oggetti -senza guardarli veramente- come pretesto nella determinazione di una teoria della società? In realtà, la bellezza di una scultura non è estranea alla sua funzione sociale, come pure il suo ruolo rituale o magico non impedisce ai suoi fruitori di apprezzarne la bellezza. Più un oggetto riveste una funzione importante, più le sue qualità estetiche sono evidenti; uno stretto legame unisce funzione e bellezza, la prima regge l’altra favorendone lo sbocciare, la seconda magnifica la prima esaltandola. Prima di tutto, va evitato di fissare in un’unità tribale un insieme di oggetti, o, al contrario, di disgregarla.
Contrariamente a quanto alcuni “etnologi” vorrebbero farci credere, l’Africa non vive in un eterno presente. Non esiste un’unica concezione della storia. Qui, come altrove, le abitudini sono cambiate, si sono evolute e lo stesso vale per la scultura. Tanto più che, secondo l’origine clanica o familiare dell’informatore sul terreno, la statua avrà dei significati diversi e l’omogeneità del gruppo osservato sarà instabile quanto le attribuzioni. Cambiando il mito, cambierà anche l’interpretazione di esso. In questo ambito nulla è mai definitivo. In Africa un oggetto è fluido quanto il verbo e le sculture sono il supporto della parola. Ma nulla vi impedisce, al cospetto di una scultura di qualità eccezionale, che fornisce una versione originale del mondo, di percepire la volontà dello scultore di estrinsecare un’idea.

Kota. Reliquiari “mbulu-ngulu”, 1908.
Scultura, dimensione, parola.
Le opere a carattere naturalistico, come le teste di Ife, vi saranno più accessibili, poiché esse agiranno sulla vostra tonalità culturale, visiva, sensuale, tattile. Sono certamente dei capolavori, ma costituiscono una sola varietà nell’enorme gamma di soluzioni plastiche proposte dalla scultura africana. Frobenius, scoprendo queste teste nel 1910, le ha immediatamente collegate alla Grecia, nella convinzione di aver ritrovato Atlantide. Juan Gris, invece, dichiarò in “Action”, nell’aprile 1920, a proposito dell’arte africana: “È all’opposto dell’arte greca che si basava sull’individuo per cercare di suggerire un tipo ideale”. E aggiunge: vederla unica, significherebbe uccidere l’arte greca. Le opere di Ife sono totalmente africane; se le osservate con attenzione, potrete constatare rapidamente che non è possibile confonderle con nessun’altra scultura al mondo.
Ma davanti all’arte africana, più sarete aggrediti e sconcertati, più dovrete stare attenti: non temiate l’emozione, lo shock. Prima di esprimervi non cercate la firma o la data. Attitudine -che J.M. Drot stigmatizza- del pensiero sistematico e classificatore del mondo occidentale. Le sculture africane non hanno firme e sono al di fuori della nostra cronologia. Valutate con i vostri occhi: “L’occhio deve esplorare la superficie, assorbirla pezzo per pezzo e consegnarla al cervello che immagazzina le impressioni e le costituisce in un tutto. L’occhio segue i percorsi che gli sono stati predisposti nell’opera” (P. Klee). Avvicinatevi a ciò che potete sentire, cogliere, come la sensualità contenuta nella scultura africana e non pensate in termini di espressionismo, di cubismo o di realismo, non crediate che una maschera rida o pianga. Non lasciatevi sedurre da materiali come l’oro, il bronzo, le patine laccate, altrimenti restereste confinati nel “catalogo delle opinioni chic”.
C’è anche un momento di percorso intorno a una scultura tridimensionale, indispensabile alla sua comprensione. Essere attivi davanti a una statua, forse, vi sarà più difficile in quanto noi oggi viviamo nel bidimensionale, nel regno delle immagini e questo modifica la nostra percezione della scultura. Essa è sempre più assente da ciò che ci circonda, ad eccezione della sua presenza sottoforma di “monumento mortuario” o di supporto architettonico. E’ dunque opportuno esercitare l’occhio per poter scoprire in questa vasta produzione artistica, in questo labirinto, i tempi forti, i segni conduttori altrettante espressioni originali della potenza creatrice e della maestria tecnica.
(…)
La scultura africana è, in generale, di piccole dimensioni, supera raramente il metro, ancora più raramente il metro e ottanta. Tuttavia, questo non le impedisce di esprimere una certa monumentalità. Le proporzioni derivano dalla sua manipolazione e dal suo uso all’interno delle strutture nelle quali appare. Quando la statuaria aveva un ruolo davvero collettivo, doveva e poteva essere vista da tutti: è il caso della funzione architettonica. Tuttavia, anche in queste circostanze, la si ritrova raramente in Africa; chefferies bamileke, palazzi bamum, templi yoruba. Sculture di grandi dimensioni esistono in certi siti funerari, come presso i Konso-Gato d’Etiopia, i Bongo del Sudan, i Giriama del Kenia, i Sakalava e i Bara del Madagascar, o con funzione di protezione del villaggio, clanico o familiare, come i “bochio” dei Fon del Benin.
(…)
Contrariamente alle sculture, la maschera, il cui uso è spesso accessibile a tutta la collettività, per lo meno maschile, può svilupparsi a piacere nelle grandi dimensioni, come presso i Dogon, i Mossi, i Baga, ecc. Può addirittura essere “sovradimensionata” dai suoi portatori, ritti su trampoli, come presso i Dan della Costa d’Avorio o i Punu del Gabon. La scultura tridimensionale africana, come nel resto del mondo, è apparsa con la sedentarizzazione, quando il dominio della tecnica agricola ha permesso alle tribù nomadi di stabilirsi in un certo luogo: questo si constata in tutto il Medio Oriente, nel bacino mediterraneo (Cicladi, Malta, Cipro), in Cina, nel bacino del Danubio (Romania, Cecoslovacchia) e in Africa, lungo il Niger, come confermato dai lavori di J.P. Roset. Questa tecnica viene scoperta o trasmessa in maniera piú o meno lenta e sfocia in un insieme di dati come la scrittura, la città, lo stato, l’esercito e l’architettura. Queste società di agricoltori-cacciatori-pescatori, più o meno guerriere a seconda delle circostanze, produrranno una scultura tridimensionale generalmente molto piccola e assai vicina concettualmente, e comunque sul piano estetico, alla scultura africana. Tutte queste statuette dimostrano nella strutturazione delle loro forme, dei loro volumi, nella precisione delle linee ridotte all’essenziale, il rifiuto della copia naturalistica, e raggiungono un alto grado di invenzione.
Per contro, ovunque l’uomo si muova, presso i cacciatori-raccoglitori o i nomadi-allevatori (Pigmei, Boscimani, Ottentotti, Peuls, Masai, come pure gli aborigeni australiani o gli Indiani delle pianure), la scultura tridimensionale non esiste, sebbene ciò non impedisca a queste societá di esprimersi in maniera altrettanto appassionante in altri ambiti quali le arti del corpo, la pittura rupestre, i disegni sulla sabbia, le incisioni sulle zucche, gli ornamenti in cuoio, i tessuti, la coreografia, la musica, la danza e il canto, i miti. Quando l’uomo si muove, si porta dietro l’essenziale…
E’ a questo punto del percorso, caratterizzato dalla comprensione e dall’apprezzamento, che è opportuno ricollocare l’opera nel suo ambito socio-culturale: ecco che allora gli etnologi e i linguisti consentono di capire meglio il contesto delle invenzioni stilistiche e meglio interpretarle. Tanto più che da una regione all’altra, da un insieme culturale a un altro, la statua può rivestire un significato totalmente diverso. Al contrario, “la stessa funzione può essere esercitata da molte forme diverse e, inversamente, una sola forma può esercitare molte funzioni diverse” (J.L. Paudrat). Presso i Senufo, pochi segni consentono di distinguere la tal maschera che invita le donne all’adulterio da quell’altra maschera che invece ne condanna la pratica.
Le società definite “primitive” non utilizzavano la scrittura, e questo ha suscitato il disprezzo con il quale sono state avvicinate. È il caso di ricordare che ancora nel 1898 si poteva leggere, per mano di André Michel, ne “La Grande Encyclopédie”: “Presso i negri, che tuttavia sembrano, come tutte le razze dell’Africa centrale e meridionale, molto arretrati per quanto concerne l’arte, si trovano degli idoli che rappresentano uomini e riproducono con grottesca fedeltà i caratteri della razza negra”. Le tradizioni orali, lo si è capito ora, suppliscono alla scrittura la cui mancanza non significa un’assenza di cultura, ma piuttosto un rifiuto cosciente e deliberato da parte dei saggi per evitare di trasformare le variazioni del mito in un dogma immutabile.
Per di più, l’Africa è in contatto permanente, in modo più o meno burrascoso, con l’Islam dall’ VIII secolo. Ne consegue ovviamente che esistono numerose affinità tra l’Islam nero e l’Africa tradizionale, con avvenimenti vissuti in comune che si ritrovano più o meno differenziati nei miti e che appaiono nell’estetica. Il cavallo, ad esempio, simbolizza il tempo del contatto con l’Islam galoppante; incorporato nella cosmogonia dei popoli del delta interno e dell’ansa del Niger, rappresenta la necessita di trovare il tempo delle parole nuove e di prendere nuove decisioni. Ma l’islamizzazione di Djenné verso il 1043, lungo il fiume Niger, non impedirà alla produzione artistica di svilupparsi in tutto il bacino del fiume; e non influenzerà neppure i Dogon del Mali, zona in cui l’impero songhai raggiunge il suo apogeo nel XV secolo. Si trovano villaggi in cui vivono in comunità Peuls, Dogon, Bamana. Popoli come gli Edo e gli Yoruba della Nigeria resistono alle pressioni dei Fulani o degli Haussa islamizzati. Tuttavia, lo spirito di astrazione e di geometrizzazione dell’Islam ha certamente giocato un ruolo sottile nell’ambito della produzione delle maschere come pure nell’ambiente. Ma la penetrazione fu senza dubbio assai tollerante e, anche se il Corano proibisce qualsiasi rappresentazione umana, l’Islam in Africa può aver mirato alla distruzione degli idoli, ma non ha mai pensato di distruggere la scultura. Con una ridda di “Islam regionali”, di contatti evolutivi tra l’VIII e il XIX secolo, ci si può chiedere se non sia stata l’Africa a “rendere negro” l’Islam.
La tradizione orale africana non si limita a raccontare di fondazioni, di emigrazioni, di lotte contro gli invasori, ma ingloba anche tutti gli aspetti della vita. E’ una scuola che comprende la religione, la conoscenza e le scienze della natura, l’iniziazione a un mestiere, la storia, i divertimenti: coinvolge l’uomo nella sua totalità. Si deve imparare a decifrare la scultura, supporto della parola e del mito in evoluzione permanente. Questa parola e talvolta di origine divina e presenta un carattere sacro. Secondo la mitologia dogon, “i primi uomini erano privi di parola, incompiuti, aridi infelici” non potevano compiere alcun progresso, poi Binu Seru ricevette un insegnamento dall’antenato Nommo durante un incontro. “Il loro sistema di vita ne fu trasformato; da raccoglitori di frutta divennero coltivatori, la parola li rese attenti ai fenomeni atmosferici e permise loro di regolare il calendario agricolo”. (G. Calame-Griaule, Ethnologie et Langage, la parole chez les Dogon).
Presso i Bamana, il verbo è creatore e possiede la duplice funzione di inventare e di distruggere. L’importanza delle parole si ritrova ovunque in Africa; da queste derivano i canti rituali, le palabres, le discussioni, gli incontri e, di conseguenza, i mercati. Attraverso le parole si trascorrono il tempo delle feste, il tempo sacro, e, periodicamente, il tempo in cui avvicinarsi agli spiriti. Tutti questi tempi sono resi ritualmente presenti attraverso la parola visualizzata, materializzata in certuni oggetti. Per esempio, nella glottide delle statue impiegate soprattutto da uomini (glottide, elemento fisiologicamente più sviluppato negli uomini) o nelle bobine dei telai. Il tessitore africano non dice: “la navetta tesse la parola”. Si può ritrovare questa parola rappresentata da una bocca smisurata, da una lingua appariscente tra le labbra o da una lamella in ferro sporgente dalla bocca di un bastone di comando o da interprete.
Presso gli Africani, l’universo è concepito come un fragile equilibro tra due forze, la cultura, ordine delle istituzioni sociali e la natura, disordine incontrollabile che passa dalla fertilità attraverso la crescita fino alla morte. Giustamente, la scultura africana rappresenta un elemento di questa coesione sociale, mediante la sua presenza nei diversi ambiti come quello socio-politico, magico-religioso o guerresco. Nella maggior parte delle società, la religione e la politica sono strettamente legate; sono in effetti i vecchi, i “nonni”, gli uomini della classe di età superiore, giunti ai gradi di iniziazione più elevati a prendere le decisioni che riguardano la vita della comunità.
Questa lunga iniziazione formatrice termina tardi dato che un uomo viene considerato adulto, secondo il filosofo Hampaté Ba, dai Bamana e dai Peuls, a quarantadue anni e che non tutti raggiungono questo livello. Ancora un volta, è una questione di parola: per raggiungere questo grado di iniziazione, bisogna saper porre le domande giuste. E, di nuovo, la scultura dà il cambio alla parola: sebbene “in generale, le sculture africane non rappresentino i loro soggetti a un’età particolare” (W. Fagg), la barba, indice di classe di età, di saggezza, di virilità, di capitale-memoria e di conoscenza, si ritrova su un gran numero di statue e di maschere. La visualizzazione di questa barba è manifesta in tutta la scultura africana mentre non la si ritrova che assai raramente nel paleolitico e praticamente mai nel neolitico: unica eccezione, la statua di Beer Safad (4000 a.C.), trovata in Israele, che presenta una serie di buchi di attacco attorno al viso, che permetterebbero, come nella testa di bronzo di Ife di Obalufon, l’apposizione di una barba posticcia; ma questo resta una supposizione. La barba, simbolo concettuale della saggezza degli anziani, guardiani essi stessi della tradizione orale, si materializza nella statuaria. In Africa, la scultura è la parola divenuta forma.

Vili. Feticcio “nkonde”, 1916.
Gli oggetti di superficie.
Gli oggetti rituali, maschere, statue, mobilio, utilizzati in superficie rivestono, nella società africana tradizionale, un ruolo molto più importante degli oggetti funerari, destinati ad essere sepolti. Va aggiunta una piccola quantità di pezzi dal duplice impiego -parure e mobilio sacro che accompagnano il morto nella tomba- come a Igbo-Ukwu in Nigeria, o certuni oggetti funerari trovati fortuitamente e riutilizzati in superficie, come presso i Kissi in Guinea, quelli della cultura nok o della cultura owo in Nigeria.
In Africa gli spiriti sono presenti ovunque. Un uomo diventa spesso più importante dopo la sua morte che in vita. I segni di superficie funzionano da esempi e sotto esempi, in uno stretto rapporto tra il ruolo che essi hanno e quello dei loro manipolatori; esistono oggetti collettivi (spesso le maschere), semi collettivi (ancora le maschere e una piccola parte della statuaria) e quelli -in particolare statuette- riservati ai saggi, memoria vivente della comunità. Questi ultimi riattualizzano continuamente gli oggetti nelle relazioni che essi intrattengono con il mondo esterno (avvenimenti storici, contatti con l’Islam, il Cristianesimo, migrazioni, guerre, alleanze) e il mondo interno (spiriti, morte, sogni). Attorno alle funzioni e agli usi, si stabiliscono dei sistemi di manipolazione ciclica estremamente complessi e di protezione.
Potreste trascorrere la vostra vita in Africa senza avere la possibilità di vedere una statua in funzione; esse sono celate non solo al forestiero, ma anche a gran parte della comunità. Griaule, con la Scuola francese di etnologia, nel corso di circa mezzo secolo di presenza, ha potuto accedere solo in rarissime occasioni alla statuaria dogon sacralizzata. I membri del gruppo hanno visto delle maschere (collettive), delle sculture sconsacrate, sono stati perfino lo spunto per la creazione di nuovi supporti, come la maschera Madame o la maschera etnologa.
Dal XVIIl secolo ai nostri giorni, si osserva così, nell’iconografia dei racconti di viaggio, l’apparizione di armi, strumenti musicali collettivi, mobilio, parure, e alcuni rarissimi documenti più interessanti: mostrano un Africano che ha appena ricevuto un calcio nel sedere, circondato da statue per dare all’immagine una dimensione feticista. E non dimentichiamo l’ultimo arrivato… la maschera fatta per il turista. In realtà, la maggior parte di questi “trompe-l’oeil” permette di dissimulare la scultura sacralizzata e l’attitudine degli utenti di fronte a questa statuaria. Questi ultimi si comportano nei riguardi di ogni statuetta come verso un individuo. In Africa, esistono ancora numerose statue nascoste che riappariranno solo quando non avranno più alcun interesse per i loro manipolatori. Poiché beneficiano di un sistema di protezione elaboratissimo.
La preparazione di un segno di superficie inizia dalla scelta del materiale (qualità dell’essenza dell’albero), dal momento in cui l’albero sarà abbattuto, dalle tecniche di ammollo (palude, fango) e dalla miscela delle patine (olio, miele, cera d’api, fumo, pittura), e prosegue con i sacrifici rituali (sangue, birra di miglio). Infine intervengono l’ubicazione (tempio, altare familiare, grotta, granaio, cassa), l’involucro (spesso pacchetti di tessuto enormi in rapporto alla dimensione dell’oggetto) e la manutenzione; certuni uomini possono esserne responsabili a costo della loro stessa vita. Può succedere che durante lo svolgersi di avvenimenti particolarmente turbolenti, come durante gli anni Sessanta nel Camerun, per la rivolta dei Bamileke, i re affidino i loro oggetti sacri a notabili residenti assai lontano dalla loro chefferie.
Anche la preparazione di oggetti sostitutivi fa parte dei sistemi di protezione: cioé la rapida fabbricazione di una statua non sacralizzata, a beneficio dei missionari, degli amministratori o degli etnologi di passaggio. Il complesso di superiorità di queste persone impediva loro di immaginare, anche per un solo istante, che gli Africani si fossero presi gioco di loro. I missionari reclamavano gli idoli e, durante la notte, gli Africani, divertendosi, fabbricavano un oggetto sostitutivo. Il giorno dopo essi consegnavano la loro vergine di “Saint Sulpice” pur conservando l’autentica vergine “romana”; allentavano così la pressione. Questa pratica continua. Molte volte, dopo notti di trattative, i Neri mi hanno presentato, accompagnato da tutto un cerimoniale, un enorme pacco contenente una maschera o una statua. Dicevo loro: “L’avete fabbricata questa notte, mi prendete per un bambino?” Scoppiavamo tutti a ridere stabilendo cosi una relazione di complicità magica. Quanti turisti sono stati svegliati, presso i Dogon, nel pieno della notte e trascinati, uno dopo l’altro, in una capanna da un anziano che presentava loro con mille precauzioni la porta di un granaio degli antenati. L’indomani, nel loro veicolo, avevano tutti la medesima porta, falso oggetto con riparazioni tradizionali. Tutti questi sotterfugi per dissimulare l’esistenza degli oggetti veri e assicurarne cosi la conservazione.

Fang. Gioco per giovani iniziati “mala’n me bo’ngo”, 1912.
Morte degli oggetti di superficie.
Non parlerò della distruzione causata da cataclismi naturali o dalle termiti o dai roditori, circostanze che si verificano quando gli oggetti sono sconsacrati e abbandonati. Essi perlopiù vengono distrutti dagli stessi fruitori. Nel 1889, il padre Noel Baudin si stupiva: “In uno dei primi anni del mio soggiorno sulla costa degli Schiavi, il nostro vicino, noto fabbricante di feticci, era morto ed erano stati messi fuori dalla sua capanna tutti i suoi feticci (…) io chiesi ai Neri come mai trattassero in questo modo i loro dei. Essi affermarono che i loro dei non erano più li, e quindi tutte le statue e gli altri loro simboli, ormai inutili, erano stati buttati fuori dalla capanna”. Spesso ho visto bambini giocare con delle belle sculture, presso i Fang del Camerun meridionale, o, ridendo, porsi una maschera sulla testa. Questi oggetti, qualunque sia la loro autenticità, il loro ruolo passato e la loro qualità plastica, non avevano più alcun significato per la comunità.
Una maschera può anche essere fabbricata in occasione di una cerimonia particolare, come le maschere “cikunza” presso i Tschokwe, e poi venire distrutta all’indomani del suo utilizzo. Altre vengono buttate perché rovinate durante una manipolazione. Certi oggetti rispondono negativamente ai loro utenti e spariscono. Senza contare le maschere o statuette in erba, fango, fogliame; materiali effimeri, e dunque deperibili.
Ma sui segni di superficie pesano anche le decisioni politiche o religiose. Numerosi esempi possono illustrare questo genere di distruzione. Verso il 1400, a seguito di un conflitto, un lignaggio lasciò la città santa di Ife e si stabilì tra questo luogo e Benin. Le terrecotte di Owo, meravigliose nella loro delicatezza e, in Africa, uniche nella loro concezione, verranno distrutte due generazioni più tardi dall’esercito del Benin. Durante la conquista del territorio edo da parte degli Yoruba, interi villaggi con tutti i loro oggetti vennero annientati. Nel 1897, il vice console inglese espresse il desiderio di far visita al re del Benin durante le cerimonie dell’Igue. Quest’ultimo rifiutò poiché, durante questo periodo, egli era (considerato) invisibile. Questo fatto scatenò la spedizione punitiva degli inglesi contro la città e il saccheggio di circa quattromila oggetti. Venduti a Londra l’anno successivo, essi si trovano attualmente per la maggior parte al British Museum, al museo di etnologia di Berlino e in numerose collezioni pubbliche e private.
Vanno aggiunte le distruzioni operate dagli eserciti coloniali, la soppressione di migliaia di segni di superficie durante la guerra del Biafra da parte degli Haussa, del capo Mukeenga Khalemba presso i Bena Lulua, i bombardamenti di Kadhafi su Djamena, cbe hanno portato al saccheggio del Museo nazionale, all’incendio della biblioteca e alla distruzione dei siti archeologici limitrofi. Si possono anche ricordare i saccheggi provocati dalla propagazione dell’Islam, gli autodafé dei missionari, le pratiche dei culti sincretici: il culto “mademoiselle” tra il 1940 e il 1964 in Gabon e in Congo; il culto di massa presso i Senufo nel 1953; lo Spirit Movement tra il 1920 e il 1930 in Nigeria. E, per finire, citiamo le raccolte sistematiche dei grandi musei etnografici, la vendita da parte degli stessi Africani di certi pezzi per rispondere alla crescente richiesta. “In Camerun, al momento dell’indipendenza, apparvero sul mercato delle “arti primitive “autentici pezzi antichi, spesso molto importanti, venduti a cifre assai elevate dagli stessi monarchi d’accordo con i loro notabili.” (P. Harter)
Non possiamo, ovviamente, correggere il passato: tuttavia, è in nostro potere evitare altri disastri. Se non ci fosse stato l’interesse di artisti e di poeti come Picasso, Matisse, Derain, Apollinaire, Féneon, e quello di mercanti e di appassionati di arte africana, quest’ultima non avrebbe ora il posto che occupa nel patrimonio culturale dell’umanità. Gli Africani, per il momento, non si interessano in questo modo ai loro oggetti (non conosco del resto un solo amatore di arte nera in Africa). Tuttavia l’avvenire del patrimonio archeologico africano situato nel sottosuolo appartiene a loro. Lasciamo decidere agli Africani quale sviluppo vorranno consentire alla museografia del loro paese; restiamo semplicemente a loro disposizione per collaborare, se essi ce lo richiederanno, nella realizzazione, ad esempio, degli scavi scientifici, come quelli di T. Shaw a Igbo-Ukwu in Nigeria. Sforziamoci soprattutto di nobilitare lo sguardo che posiamo sulle arti nere.

Yombé. Feticcio, 1906.

Abiriba. Vassoio, 1930/1939.

Kongo. Maschere, 1910.

Ibibio. Maschere “ekpo”, 1905.

Woyo. Feticcio “nkonde”, 1902.

Igbo. Danzatori “kwoho”, ca.1900.

Songye. Feticcio “nkisi” con il suo guardiano “kunca o nkunja”, 1913-1916.

Igbo. Statua “alusi”, 1930/1939.

Igbo. Statue “ikenga”, 1916.

Igbo. Maschera “otili”, 1931.

Ika. Altare portatile, 1930/1939.

Songye. “Minkisi” di comunità, ante 1940.

Songye. “Minkisi” di comunità, villaggio confluenza fiumi Lubengule e Lomami, 1927-1934.

Baga Sitemu. Tamburo rituale “timba”, ca.1930.

Luba. Maschere, statue e “kitumpo kya muchi”, 1900-1910