
Yombé. Feticcio “nkisi nkonde”, 1906.

Bena Mitumbo. Maschera “katotoshi”, 1930.

Luvale. Maschera “mupala”, 1889.

Senufo. Maschera “gbon”, 1920.

Bamileke. Maschere “mbap mteng”, 1930.

Songye occidentali. Maschera, 1910.

Igbo. Maschere “okoroshi”, quella a destra chiamata “Onyejuwe”, anni 1930.
Il linguaggio delle maschere. Anne Marie Bouttiaux, 2003.
ll fascino delle maschere non si esercita soltanto sui popoli originari dell’Africa o di altre contrade remote. Sono oggetti che da sempre colpiscono la fantasia, perché hanno un ruolo nell’ambito della trasformazione. ln forma implicita, richiamano alla mente l’esistenza di colui che cela la propria identità per assumerne un’altra: perciò suscitano interrogativi, turbamento, e talvolta addirittura spavento o angoscia. Di fronte alla maschera, presi tra l’incanto e l’inquietudine, non si sa bene se temere o apprezzare colui che la porta e che si nasconde allo sguardo, oppure l’entità da questi impersonata. Un effetto paradossale dovuto alla loro presenza nei musei, dove se ne ammirano le qualità plastiche, è che nella mente del visitatore le maschere africane non sono più legate direttamente alla manifestazione complessiva di cui erano parte nel contesto originario.
Quasi che le “patenti di nobiltà” acquisite sul piano estetico le staccassero del tutto dalla realtà per la quale erano state concepite, modellate e indossate. Quel che hanno guadagnato da un lato, dall’altro lo hanno perso, imprigionate come sono nei criteri degli amatori d’arte occidentali. Alcune vengono riconosciute -e certo a buon diritto- come indiscussi capolavori, ma rimangono del tutto prive di quel che in passato conferiva loro splendore e anche bellezza: ossia la loro manifestazione totale. lo vorrei appunto invitarvi a seguire con me il fenomeno globale costituito dall’apparizione della maschera nel suo ambiente originario: l’oggetto che con la sua arditezza formale vi ha sedotto tra le mura del museo potrà così essere ancora sublimato ai vostri occhi grazie al dinamismo del suo recondito senso religioso, politico o sociale. E questo perché il ruolo che le viene attribuito, e il modo in cui la maschera lo esplica, la rendono ancor più pregevole dal punto di vista formale.
La danza, il mimo, i costumi, la musica e i canti, le preghiere e i sacrifici, la partecipazione di chi la indossa, degli officianti del rito, degli antenati e degli altri attori responsabili dell’evento, insomma tutto, nell’intervento in maschera, serve a completare quella che nelle nostre vetrine ha l’aspetto di un semplice volto, in genere scolpito nel legno. Tutto contribuisce a rendere la maschera, considerata nel complesso di queste manifestazioni, un’entità onorata, venerata, apprezzata, ma anche spesso temuta. Per la maggior parte delle popolazioni africane che si servono della maschera, essa acquista un senso soltanto considerando la globalità della sua apparizione, ivi compresi anche gli aspetti non visibili: vale a dire la forza spirituale che con la maschera si mette in moto, si tratti di una divinità, di uno spirito della natura, di un antenato o di qualsiasi altra potenza soprannaturale presente e incarnata in essa.
Colui che indossa la maschera, dunque, anche se non tutti lo riconoscono, ne costituisce parte integrante: senza di lui, non c’è più la maschera viva, la maschera efficace. Quando un Bamana (Mali) pensa alla maschera “kono”, la vede scatenarsi nel villaggio mentre danza con energia, la sente fischiare e sente i canti che l’accompagnano. Non è una testa devitalizzata, come la maggior parte delle volte la vediamo esposta in un museo, quella che gli appare; altrettanto si può dire di uno Tshokwe (Angola) che pensa alla maschera “phwo” o di un lbo (Nigeria) per il suo rapporto con la maschera “ogbodo enyi”. Trovandosi sempre, nei musei, di fronte a testimonianze di società antiche e talvolta scomparse, certi pensano che le maschere offerte alla loro ammirazione, appese alle pareti o fissate a un piedistallo, non possano esistere ormai che in tale forma, e non siano più utilizzate secondo la tradizione. Invece, oggi esistono ancora numerose popolazioni africane che si richiamano alle maschere. Alcune lo fanno seguendo le stesse modalità del passato, con cerimonie rituali che in questo caso sono rimaste inalterate; altre indossano la maschera in occasioni di carattere più ludico e festivo; altre ancora hanno in effetti rinunciato a ricorrere alle maschere sotto qualsiasi forma, e a volte addirittura non ne posseggono più. Fra queste tre eventualità, esistono tutte le gradazioni possibili: si possono creare nuove maschere come pure prendere a prestito quelle in uso in una società vicina, passando attraverso i mutamenti di funzione, di comportamento, di costume, o lo sconfinamento in ambito rituale di esemplari che fino a quel momento erano legati allo svago. Sia come sia, cercare di ricostruire quale fosse o quale sia oggi il linguaggio di questi oggetti nell’ambiente tradizionale rimane un esercizio capace di approfondire il piacere estetico che essi possono suscitare in noi, oltre che di rendere omaggio alla memoria di chi li ha concepiti e creati.

Baga. Maschera “d’mba” o “nimba”, 1938.
L’ambito degli uomini, il rapporto con le donne.
ln Africa, la maschera è di per sé monopolio maschile. A parte alcuni esempi legati alle donne e realizzati con stoffa o altre sostanze vegetali, tutto, o quasi tutto, quel che riguarda la maschera viene gestito dagli uomini: la fabbricazione, l’uso, le cerimonie rituali relative, l’indossarla e talvolta, nei casi estremi, perfino la partecipazione alle manifestazioni e la visione della maschera propriamente detta. Esiste però un’eccezione celebre: un tipo di maschera di legno scolpito che appartiene alle donne. Sono le maschere sowei della società segreta di iniziazione femminile Sande, che troviamo presso i Bassa della Liberia e i Mende della Sierra Leone.
Tuttavia, in certi casi, nelle situazioni disperate di catastrofi, malattie o sterilità della terra, può accadere -e nella maggior parte dei casi per consiglio di un indovino- che si affidi a una donna l’incarico di intervenire in una cerimonia rituale in maschera. Quasi che la violazione del divieto fondamentale, che nega alle donne l’accesso alla maschera, costituisse uno sconvolgimento di tale portata da riuscire a rovesciare l’ordine delle cose, in questo caso vale a dire piuttosto il disordine: una calamità che si è abbattuta sul popolo e che non si riesce a sradicare. Il flagello sarebbe quindi annientato grazie a un effetto di devastazione assimilabile in senso metaforico a una scossa elettrica.
Il fatto che in generale le donne siano escluse dal mondo della maschera si spiega in modo diverso nelle varie società e spesso viene attribuito a un’origine mitica. Può essere accaduto che le donne, che in un primo tempo erano in possesso delle maschere, non siano riuscite a conservarle per ragioni inerenti a qualche peculiarità del loro carattere, oppure che abbiano fatto un passo falso nei confronti di qualche spirito o divinità della natura. Dopo tale colpa originale, gli uomini si sono serviti e si servono delle maschere come di oggetti di potere e di pressione, in primo luogo, certo, sulle donne, ma anche su tutta una serie di gruppi sociali che non hanno ancora adempiuto ai necessari obblighi rituali o che non sono autorizzati ad adempierli. A seconda dei casi, questi gruppi possono essere quelli formati dai bambini, dai non iniziati, dagli schiavi, dagli stranieri, da certi individui marginali o dalle persone volutamente bandite dalla società.
Talvolta il rispetto di questo potere e di questo privilegio è imposto sotto la minaccia di violenti castighi. Per esempio, in Nigeria accade tuttora che le maschere lbibio della società Ekpo puniscano con la morte tutte le persone che non hanno il diritto di vederle. Tutto questo non impedisce però che il volto femminile sia uno dei temi prediletti nell’iconografia delle maschere, mentre i comportamenti femminili offrono una fonte d’ispirazione inesauribile agli uomini che partecipano alle cerimonie in maschera, si tratti di colui che in effetti la indossa o dei suoi accoliti.

Bamileke. Maschere elefante, 1913.