La forma selvaggia (parte seconda )

Scoprire l’Africa. Luigi Baldacci, 1989.


Si può arrivare all’Africa Nera da tante parti. A me è accaduto di sbarcare su questo continente in seguito a un’intossicazione, protrattasi per molti anni, di arte italiana antica a forte connotazione espressiva e sentimentale, profondamente radicata in una sua necessità storica, sicché il giro di soli cinque anni è sufficiente a determinare in essa variazioni di rapporti che, viste soprattutto dall’interno del sistema, sembrano decisive. Da una superficie mobile, cangiante, approdare a una riva basaltica, questa la prima impressione, o, insomma, la mia esperienza esistenziale: anche se poi, appena messo piede su quella terra ignota e affascinante, poteva subentrare il sospetto che il campo delle sensazioni tornasse ad essere rifranto secondo gli stessi principi di differenziazione dominanti nell’esperienza europea.
Le forme di una maschera Bambara o di una maschera Baulé apparivano, anche al catecumeno, profondamente diverse. Si riproduceva quello stato perenne di tensione che era caratteristico della ricerca fatta in Italia: pero la geografia prendeva il netto sopravvento sulla storia, gli archetipi s’imponevano con l’autorità delle idee, le persone si ritraevano nell’ombra, si dissolvevano, non esistevano: esisteva soltanto l’opera nella sua assolutezza, generata da una mente divina che si serviva dell’artefice come di uno strumento. E sappiamo benissimo, invece, che le cose non stanno cosi e che oggi si tende a recuperare una storia e una storicità dell’Africa e dell’arte africana e si arriva perfino ad enucleare delle personalità creatrici da un contesto di forme increate: ma resta il fatto che questo sentimento di silenzio, questo prendere atto della caduta di tutti i nostri parametri sono cose del tutto nuove e profondamente suggestive per chi viene da quell’altro mondo, dove il primo proposito, la prima necessità è stabilire se sia stato il Pignoni o il Montelatici o il Botti a inventare quella figura di santa o quell’allegoria.
Quanto al concetto di storia, può darsi che il discorso sull’arte negra sia stato incapsulato in una falsa dialettica. In un primo momento quella possibilità di una storia l’abbiamo troppo negata, poi, per fare ammenda, ne abbiamo concessa anche troppa; e naturalmente si trattava dell’unica storia che fossimo in grado di elargire: la nostra. Voglio dire cioè che non siamo riusciti a immaginarla, quell’arte, senza farla passare attraverso il filtro o la lente della nostra mentalità: ci è sembrato intollerabile che la sua vicenda si svolgesse fuori dalle nostre forme di pensiero, o, al contrario, ci è sembrato suggestivo o perfino generoso attribuirle quei parametri e quelle forme riconducendola sotto il concetto di un’originalità estetica e di un’espressività artistica che, a ben considerare, non è valido neppure -almeno nella gran parte del suo svolgimento- per l’arte europea.
Nel fondamentale saggio di Ezio Bassani, “La cultura europea e la scultura dell’Africa Nera”, c’è una citazione di Hegel che, riferita al “negro”, potrebbe essere trasposta all’arte e, debitamente decontestualizzata onde non fare di Hegel un pionieristico scopritore, sarebbe da usare come epigrafe di ogni discorso su questo problema: “Per comprenderla dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee”. Intanto, per un recupero storico dell’arte africana ci sono delle difficoltà obiettive.
Noi sappiamo che essa ha avuto una storia, dalla cultura Nok, a quella Ife, a quella Benin: ma si tratta di isole, d’immense zattere alla deriva che non hanno più la contestualità e l’organicità di movimenti e di fatti in divenire. Quella storia si è inabissata. La cultura africana non ha memoria perché non ha scrittura e non ha scrittura perché non ha memoria. C’è anche questo aspetto da meditare: l’Africa non ha avuto bisogno di un alfabeto perché non ha mai interrotto il contatto con i suoi dei, i suoi archetipi. Indubbiamente noi non possediamo i documenti di quella storia: ci sono stati cataclismi colossali che hanno attraversato questo continente e non sono stati registrati; ma la storia, la scrittura significano la separazione del mondo umano dal mondo divino, e questa separazione in Africa non c’è stata, o non c’era stata almeno prima dell’ultima colonizzazione, islamica o cristiana.
Noi ci accostiamo a tutto, e quindi anche all’arte negra, secondo la nostra ottica antropocentrica; non accettiamo il selvaggio se non come un mito illuministico, e invece l’Africa Nera stabilisce un punto di valore proprio dove noi, antropocentricamente e umanisticamente, vediamo un disvalore. Per noi conta l’affermazione dell’uomo sulla natura, il suo distacco spirituale dalla materia, la presa di coscienza: questo processo nell’Africa Nera non c’è stato. La nostalgia di Leopardi (l’unico pensatore moderno che abbia avuto il coraggio di un assoluto antiumanismo) per un’immagine dell’uomo che, prima del peccato originale, fosse ancora parte integrante del sistema della natura, è per noi solo un sogno regressivo del civilizzato che intende azzerare il proprio bilancio culturale, ma poteva trovare appagamento nella realtà del mondo africano. Quando si dice che questo mondo è fuori del tempo, non si dice poi cosa tanto convenzionale e banale come oggi si tende a credere. È la sua struttura religiosa -dove religiosità, materia e natura sono elementi inscindibili- che è necessariamente metatemporale. E forse l’Africa Nera è il rimorso dell’uomo moderno, la sua occasione mancata: ammesso che gli uomini volessero continuare a vivere su questa terra anziché accelerare la propria scomparsa.
Ma tornando ai cataclismi, ai diluvi che hanno cancellato la storia dell’Africa, non bisogna dimenticare che la stessa arte è stata, per una grandissima quantità di oggetti, spazzata via insieme con quella storia. È vero che l’antichissima arte Nok e l’arte Yoruba dimostrano, per fare un esempio, essenziali punti di contatto (e non si tratta di una ripresa intellettualistica, come potrebbe essere quella del nostro neoclassicismo nei confronti dell’arte classica, bensì della perpetuazione di una stessa lingua naturale), ma occorre anche tener presente che l’arte negra di cui oggi parliamo, quella insomma giunta fino a noi e protrattasi -con contaminazioni più o meno turistiche- fino ai nostri giorni, altro non è che un velo di superficie rispetto a uno spessore di opere, di produzione, di tempi che non esiste più. Non solo: noi siamo abituati a vedere la storia in divenire; la storia dell’Africa, per quel che ci assicurano l’archeologia e la filologia, va in senso contrario. L’arte che commosse l’Europa nel punto della maggior gloria di Picasso, era l’arte di una civiltà in dissoluzione, stremata e depredata già dallo schiavismo e attaccata infine dal colonialismo. Non è retorica del nostro tempo: è bensì vero che il poco che sappiamo della storia dell’Africa ci assicura che l’Europa e l’America hanno nuociuto molto alla civiltà africana.
Ma se le nostre esperienze di quest’arte poggiano su un materiale per lo più molto recente che, cronologicamente, appartiene alla crisi di una società, resta una precisazione da fare: sarebbe un’altra indebita sovrapposizione di un nostro schema mentale definire quest’arte, come qualcuno ha del resto fatto, un’arte di crisi; sicché quella che apparve a Picasso e ai suoi amici come una meravigliosa possibilità di liberazione, sottratta a ogni formula e convenzione, rappresenterebbe invece una fase di decadenza rispetto alle culture antiche. Quell’arte, che poté essere adoperata come un sasso contro la vetrina dell’accademia (ed è il modo più naturale di adoperarla per chi, anche oggi, si avvicini ad essa), era in sé un’arte profondamente regolata, calata, per così dire, in un’accademia sua che, mantenendola fedele agli archetipi, la metteva al sicuro da un rapido dissolvimento. E così essa e forse sopravvissuta, in tempi calamitosi, alla stessa cultura che l’ha espressa; era in declino il potere delle società segrete, ma ancora si scolpivano bellissime maschere per i membri di quelle società.
Parlando di accademia, si rischia pero che la metafora e l’analogia ci portino troppo fuori strada. È più esatto dire che l’arte africana ha le sue regole, i suoi codici, i suoi modelli o archetipi, che devono essere ripetuti di padre in figlio, perché è appunto manifestazione della collettività, di tutta la sua cultura, e non è mai un fatto individuale, separato. Interpretarla sotto la categoria dell’originalità significa un totale fraintendimento, anche perché, a differenza della nostra -che è sempre stata l’espressione di un’élite e non dell’intero corpo sociale- essa, quando non sia arte di corte, ci offre occasioni esistenziali prima che simulacri. Le maschere antropomorfe o zoomorfe, le statue degli antenati (o degli sposi) sono oggetti di cui è spesso arduo ritrovare l’esatto significato: la cultura dell’Africa di ieri è stata troppo brutalmente sostituita da un’altra; ma noi possiamo esser certi che quella maschera o quella statua erano essenziali alla vita quotidiana nei suoi aspetti religiosi e sociali.
E anche il parallelo che possiamo fare con la nostra arte religiosa -non diciamo d’oggi, che non esiste più, ma di ieri- è assolutamente illusorio: la nostra arte rappresentava il sacro, non era in sé un oggetto sacro, non era la sacertà; l’arte africana è invece tutto questo in forza degli aspetti magici di quella cultura e di quella società. Quegli oggetti sono il tramite tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tra la materia e l’anima, tra il presente e l’eterno, il visibile e l’invisibile. Sono i veicoli necessari per questi viaggi.
Del resto la nostra arte era arte di storia, dell’Antico e del Nuovo Testamento, e l’arte africana è arte del presente, della vita e del rito inscindibilmente considerati. E quando si torna a porre la domanda se quest’arte abbia una finalità estetica, bisogna ripetere che tale domanda è mal posta. Quest’arte non ha finalità estetiche: ha quelle finalità di artificio, di eccellenza tecnica, di bravura che trovano il loro riconoscimento immediato da parte del corpo sociale e sono alla base non tanto del funzionamento di questo o di quel modo di espressione, ma della stessa psicologia umana. E tuttavia, poiché tale arte percorre e ripercorre il sentiero che ci porta nel regno delle ombre e degli spiriti e non può non avere, per questa stessa dialettica tra vita e morte, un significato simbolico, ne consegue che, essendo il simbolo l’essenza prima dell’operare artistico, essa viene a collocarsi sul piano di quella particolare espressività che è dei mondi poetici.
Il suo linguaggio non è di comunicazione tra gli uomini, ma di comunicazione tra sfere e piani diversi: il versante diurno e quello notturno, la fertilità e la morte. E qui si apre un discorso assai complesso, al quale non siamo certo in grado di dare una risposta, ma che tutt’al più cercheremo di delineare nel suo rilievo problematico. Quel linguaggio di simboli non è, come il nostro, intellettualizzato: tali simboli hanno la loro concretezza nella realtà quotidiana, corrispondono a bisogni precisi, e dovranno essere sempre uguali a quei bisogni. E perciò l’arte negra tende all’iterazione: l’archetipo diventa stereotipo, e molto spesso noi abbiamo lo stereotipo e non abbiamo più l’archetipo; ma lo stereotipo mantiene con l’archetipo un rapporto costante e necessario: lo riproduce volta per volta come per magia, è una transustanziazione di quell’archetipo medesimo. E comunque sia, noi siamo di fronte, generalmente parlando, a un’arte che si tramanda in termini seriali, ma che, proprio per la fortissima significazione spirituale che la sostiene, investe l’artista di un potere creativo che è, prima di tutto, magico, delegandolo alla creazione di nuove forme e magari di nuovi modelli che, per esser nuovi, saranno anche più efficienti.
Credo sia impossibile spiegare perché l’Africa Nera presenti una cosi sterminata varietà di forme insieme con una contraddittoria obbedienza alla perpetuazione delle forme ricevute. Si potrebbe semplicemente dire che i popoli africani sono, per ragioni evidenti, vicini alla sfera del fantastico, e quindi intendono l’arte come libertà e invenzione (come l’immagine concreta di ciò che non si vede) e d’altra parte sono condizionati a offrire (per le accennate ragioni sociali e religiose) la regolarità di un servizio pubblico, tenendosi pertanto al canone, al modello. Ma soprattutto questo nostro discorso dovrebbe portarci alla scelta di un giusto mezzo interpretativo. Non si deve considerare quest’arte come un anonimo prodotto, ma neppure si potrà insistere troppo sull’apporto storico di personalità singole, dimenticando che in questo contesto la vera storia è la preistoria, quella degli archetipi perduti. Il felice ritrovamento, sul territorio e nella loro contestualità, di un gruppo di opere omogenee e di eccezionale tenuta stilistica consentì d’isolare, nel fitto intrico delle culture del Congo, il Maestro di Buli. E anche se non sembra facile che si riproducano le condizioni che hanno reso possibile questa identificazione, gli studiosi sono oggi in grado di aggregare altri gruppi di opere sotto il nome di altri maestri. Ebbene: il rischio più evidente può essere quello dell’attribuzionismo, del quale chiunque abbia pratica della nostra arte antica conosce il fascino e i limiti. Ma diciamo in più che gli stessi rischi si presentano senza le stesse necessità.
Certo noi possiamo isolare gli esemplari cronologicamente più alti di uno stesso stile e di una stessa immagine e riconoscere, a quel punto della successione, la presenza di una medesima mano artistica, ma queste nozioni si rivelano immediatamente assai diverse nelle loro valenze rispetto alle analoghe d’uso europeo. Quando parliamo, per la nostra arte, del Maestro di Flémalle o del Maestro di Moulins siamo certi che quei gruppi di opere sono ferreamente determinati da una cronologia che non lascia adito a sorprese. Il Friedlãnder diceva che quando facciamo della critica facciamo sempre della cronologia: ebbene, questa condizione necessaria e ideale per lo studioso d’arte europea non si pone per quest’altra arte. Cosi noi conosciamo un numero grandissimo di maschere di cultura Baulé riconducibili alla caratteristica di una capigliatura asimmetrica, ma sappiamo anche che quelle maschere non possono appartenere tutte a una sola mano; e come ci sono maschere siffatte di cronologia più bassa, che sono degli affascinanti stereotipi, niente vieta che altre, di cronologia più alta o altissima, restino per ora fuori dalla zona illuminata della nostra ricerca.
Noi possiamo dunque trovarci di fronte a un vero maestro, nell’accezione corrente di questa parola, oppure a una persona artistica che interviene su un dato modello a una certa altezza della sua trasmissione. L’elemento indispensabile per l’individuazione dovrebbe essere, naturalmente, la qualità dell’opera; ma quello di qualità è un concetto applicabile sia all’inventore come all’interprete; e di fronte alla diversità esecutiva presente nelle maschere dovremo ammettere di essere ancora una volta in quell’alto mare in cui la regola del gioco è il rapporto fra tradizione e infrazione, sempre nell’incertezza che l’infrazione non sia il segno documentato di una tradizione diversa. E anche lo stesso concetto di qualità, che abbiamo invocato come criterio di ogni nostro accertamento, può sfuggirci del tutto. Indubbiamente c’è un’arte africana di bassa qualità, ma quando si passa alla qualità alta o sublime non bisogna dimenticare che spesso essa coincide esattamente con l’idea formale, prima ancora che con l’esecuzione manuale e tecnica.
L’arte africana ha insomma, nella sua essenza, un altissimo indice di concettualità (senza riferimento alcuno alla nostra arte concettuale), che si porta al di sopra della stessa manualità e ci rimanda ancora una volta a una radice platonica secondo la quale l’idea è prima della cosa e si colloca stabilmente fuori della storia e del mondo. Che è una condizione ben ardua e ben difficile da essere accettata sul piano pratico, ma dalla quale credo non sia possibile prescindere del tutto.
Quanto invece al piano storico, l’esempio più suggestivo del rapporto tra codice linguistico e infrazione ci è forse dato dalle maschere Dan, nelle quali il gioco tra lo schema formale di base e la partecipazione interpretativa dell’artista è vivacissimo e sempre ricco e aperto a nuove declinazioni, e dove l’elemento qualitativo svolge un ruolo determinante: senza, con questo, dimenticare il fatto che le macrovarianti di questo stile (il tipo con gli occhi chiusi e il tipo con gli occhi circolari aperti) appartengono anch’esse alla tradizione e non all’interpretazione. Più generalmente invece il concetto di qualità funziona in accezione negativa, ed è l’etnografo, più che lo studioso d’arte, a dovere interessarsi di questi manufatti. C’è un’arte africana che può essere cupa e disperata, ma è soprattutto povera, senza tramite di comunicazione con la radice ideale che è sempre presente nell’arte maggiore.
(…)
La grande arte dell’Africa Nera non è arte primitiva. Il primitivismo e stato una categoria essenziale del nostro Novecento: una categoria a prescindere dalla quale non si può neppur cominciare un discorso; ma se al primitivismo è stata necessaria la scoperta dell’Africa Nera, non per questo è primitiva l’arte africana. Come possono essere primitive una testa o una maschera Fang nelle quali il processo di resa formale è tra i più elevati nella fenomenologia dell’arte di ogni tempo e di ogni popolo? Come può essere primitiva una maschera Punu in cui, al di là della tipologia stilistica, l’intensità spirituale e psicologica non chiede ulteriore perfezione? L’arte negra accelerò la liquidazione ultima dell’Ottocento che a quel punto era necessaria. L’Ottocento naturalista non era stato annullato, bensì sublimato nell’impressionismo; l’incontro con l’Africa fu quello di una cultura, la nostra, che trasferiva nella propria arte solo ciò che aveva davanti agli occhi, con un’altra cultura di segno opposto, che, come abbiamo detto, rappresentava solo ciò che non si vedeva. E si penso che quest’altro modo di fare arte dovesse essere primitivo solo perché l’Ottocento borghese si era espresso attraverso l’estremizzazione del tecnicismo. Fu certo un equivoco. Non si capi che l’arte negra era semplicemente un’arte religiosa, mentre l’arte europea aveva completamente perduto il senso di quel valore. Ma proprio per questa disparità di potenziali ci fu la scarica elettrica essenziale all’arte nostra; e fu anche per l’intelligenza dell’arte africana, se si cominciò a capire che quello che non ci somigliava non per questo rientrava automaticamente sotto il concetto di brutto.
Oggi possiamo dire che proprio la bellezza intatta di quest’arte stabilisca con noi contatti più profondi e ci dia la prova di una verità che non alberga certo nei musei sperimentali d’arte moderna e contemporanea; e tuttavia quest’arte ha il diritto di essere capita e conosciuta in sé, secondo i suoi principi. Snobisticamente mi piaceva asserire che la scultura negra fosse la vera scultura moderna. Oggi non lo direi più: mi sono reso conto che quest’arte si colloca in un tempo che ha preceduto il crepuscolo degli dei. È là che bisogna raggiungerla procedendo a ritroso; non vale proiettarla in avanti misurandola al nostro intellettualismo, ai nostri parametri avanguardistici. Ritroveremo cosi la lingua che si parlava nel paradiso terrestre, e ci meraviglieremo nel constatare che tale lingua è già dotata di strutture grammaticali solidissime e di aspetti di pura espressività nei quali ogni grammatica sembra dissolversi. Finiremo allora per riconoscerci in questa diversità, per riscoprire radici che credevamo essiccate. Ma la nostra esperienza non sarà monocorde: all’alba della creazione l’uomo disponeva già di tutte le chiavi estetiche che sono ancor oggi in vigore nel nostro decrepito sistema: dalla classicità più gentile alla violenza espressionistica.
L’arte africana e, nelle sue manifestazioni, unitaria e molteplice. Come dicevamo, ristabilisce intorno a noi il silenzio, ma dentro di noi insinua interrogazioni urgenti che ci coinvolgono direttamente. Da dove veniamo, a che punto siamo della nostra vicenda? Non sarà forse che questo contatto ristabilito tra un mondo che finisce e un mondo che restò allo stato nascente significhi che veramente è compiuta la “plenitudo temporum” che ci è toccata in sorte?

Teke. Feticcio “butti”, 1928.

Igbo. Maschera “nwabogho ehi”, 1930/1939,

Luba. Singiti e sgabello a cariatide, 1887.

Ika. Staff “uruxhe”, 1930/1939.

Igbo. Maschere cerimonia “mmanwu”, 1914.

Nkporo. Maschera “ogwu”, 1930/1939.

Item. Maschera “lugbulu”, 1930/1939.

Vili. Feticcio “n’kozzo” o “kozo”, 1910.

Mende. Maschere “bundu”, 1910.

Vili. Feticcio “nkonde”, 1916.

Ngangela. Maschera, 1930.

Teke. Feticci, 1906.

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